In quel tempo, 28b si avvicinò a Gesù uno degli scribi e Gli domandò: “Qual è il primo di tutti i Comandamenti?” 29 Gesù rispose: “Il primo è: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; 30 amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza’. 31 Il secondo è questo: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non c’è altro Comandamento più grande di questi”. 32 Lo scriba Gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di Lui; 33 amarLo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. 34 Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal Regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarLo (Mc 12, 28b-34).
Le due ali della santità
Cos’è più importante: amare Dio o conoscerLo? L’intelligenza basta a salvarci? O, al contrario, l’amore esclude l’applicazione dell’intelligenza?
I – Creati per amare
Il Santo Curato d’Ars, presentato dalla Chiesa come modello dei sacerdoti, ritornando un giorno dal villaggio francese di Savigneux, cominciò a piangere… Qualche tempo dopo, egli rivelò in un sermone il motivo del suo pianto: “Tornavo da Savigneux. Gli uccelli cantavano nel bosco, e io mi sono messo a piangere. Poveri animaletti, pensavo io, Dio vi ha creato per cantare e voi cantate… L’uomo che è stato fatto per amare Dio non Lo ama!”.1
Gran parte della vita di San Giovanni Battista Maria Vianney trascorse nel XIX secolo, le cui circostanze storiche rendono comprensibile la sua tristezza. Ma se lui fosse oggi tra noi, forse non riuscirebbe ad asciugare una lacrima senza versarne un’altra, perché, molto più che in quell’epoca, gli uomini dei nostri giorni non amano Dio. Invece, in questo consiste il Primo Comandamento, il quale riassume tutti gli altri, come Nostro Signore Gesù Cristo ci insegna nella 31ª Domenica del Tempo Ordinario.
II – Il Primo Comandamento
In accordo con la narrazione dei sinottici, le dispute tra il Divino Maestro e i suoi nemici hanno raggiunto l’auge alla vigilia della Passione. San Marco racconta la sequenza di invettive mosse dai principi dei sacerdoti, scribi e anziani, farisei e erodiani, e infine dai sadducei (cfr. Mc 11, 27– 12, 27). Questi ultimi, che non ammettevano la resurrezione dei morti, chiesero con chi sarebbe dovuta restare post mortem, quella che era stata sposa di sette mariti. La risposta di Gesù mostrò l’errore in cui incorrevano, perché negavano la resurrezione e perché consideravano la vita futura in modo materialista. A dispetto dell’odio che i farisei nutrivano per Cristo, causò loro non poca soddisfazione verificare come Lui avesse lasciato i suoi interlocutori a bocca chiusa, poiché la resurrezione era uno dei punti di divergenza tra le due sette.
Buona intenzione sporcata dalla vanità umana?
In quel tempo, 28b si avvicinò a Gesù uno degli scribi e Gli domandò: “Qual è il primo di tutti i Comandamenti?”
Si concepisce, nel contesto sopra riferito, l’atteggiamento di questo dottore della Legge – anche lui fariseo (cfr. Mt 22, 34-35a) –, che andò da Nostro Signore dimostrando, secondo la descrizione di San Marco, una certa rettitudine di spirito e buone intenzioni. Il vero motivo della sua domanda, però, è discutibile: euforia incontenibile per la vittoria di Gesù? Desiderio di richiamare l’attenzione su di sé e di competere con Lui per pura vanagloria, ostentando le sue conoscenze della Scrittura? San Matteo attesta che interrogò il Maestro “per metterLo alla prova” (Mt 22, 35b), espressione che “non sempre deve essere interpretata in senso cattivo, visto che il verbo può significare, per esempio, provare per sapere”.2
Una Legge eterna
29 Gesù rispose: “Il primo è: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; 30 amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza’”.
Gesù Cristo risponde in forma molto diretta e amabile, proponendo fin dall’inizio il Primo Comandamento, tale come era inteso dal popolo giudeo, ossia, un punto pacifico e incontestabile: Dio deve esser amato sopra tutte le cose.
Si tratta di un precetto consegnato sul Monte Sinai a Mosè, che lo trasmise al popolo, come narra la prima lettura (Dt 6, 2-6) di questa domenica; la sua origine, però, è eterna, poiché esiste nel seno della Santissima Trinità, da prima della creazione del mondo. Il Padre e il Figlio, contemplandoSi mutuamente, Si amano con un amore così ricco e fecondo che da Loro procede una Terza Persona, uguale a entrambi: lo Spirito Santo. Per la benevolenza divina, questa Legge fu ampliata, abbracciando non solo gli uccelli che, cantando, hanno commosso il Curato d’Ars, ma anche noi, uomini. “Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo” (I Gv 4, 19). Sì, la nostra carità non è niente più che una restituzione degli innumerevoli favori che riceviamo dalla sua bontà. Come Creatore, Egli ci ha dato l’essere, ci mantiene e ci manterrà per sempre; come Redentore, ci ha salvato, incarnandoSi e soffrendo i tormenti della Passione; come Padre, ha voluto introdurre in noi la vita divina, “per essere chiamati figli di Dio” (I Gv 3, 1). Egli è la nostra beatitudine! Il Bene per eccellenza, il Bene sostanziale, il Bene in essenza è Dio. È, pertanto, nell’adesione totale a Lui, con la pratica di questo Comandamento – e non nei piaceri terreni e frammentari – che troviamo la piena felicità.
Un “unico Signore”
Se Dio è “l’unico Signore”, non ci è permesso averne un altro all’infuori di Lui. Ciò nonostante, chi si aggrappa a una creatura – che si tratti di una penna, un cuscino, una persona… – costituisce un altro signore che non il Dio vero, poiché uno “è schiavo di ciò che lo domina” (II Pt 2, 19). Questo rappresenta una colpa contro il Primo Comandamento della Legge di Dio da esser riferita nel confessionale. Infatti, tale precetto si viola con più facilità di quello che si immagina: basta amare qualcosa con maggior intensità rispetto a Dio! Quanti sanno perfettamente ciò che è amare Dio sopra ogni cosa? Non esiste attività umana che possa esser realizzata senza mirare a questa Legge.
“Con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima”
Afferma San Giovanni della Croce che “Dio non infonde la sua grazia e il suo amore se non in accordo con la volontà e l’amore dell’anima”.3 Per questo bisogna amarLo con tutto il cuore – e non solo con una parte! –, mettendoLo al centro delle nostre attenzioni, del nostro fervore, del nostro entusiasmo e delle nostre preoccupazioni. “L’espressione ‘con tutto’ non ammette nessuna divisione in parti. Ciò che del tuo amore impieghi nelle cose inferiori è quello che ti mancherà in relazione al ‘tutto’”,4 commenta San Basilio Magno.
Nel linguaggio corrente il cuore simbolizza l’amore; tra gli organi umani è il più sensibile alle emozioni e costituisce la fonte da cui scaturisce la carità. L’Apostolo di Roma, San Filippo Neri, una volta in cui stava pregando capì di esser penetrato da una sfera di fuoco che gli produsse nel petto una prominenza delle dimensioni di un pugno, che gli rimase per il resto della sua vita e, secondo quanto avrebbe rivelato la sua autopsia, gli spezzò due costole. Il suo cuore fu invaso da un amore a Dio in tal modo impetuoso che, con frequenza, il Santo era obbligato a scoprirsi per non essere consumato dall’ardore che lo infiammava, temendo di morire di piacere. Molti contemporanei attestano di aver notato questo calore e persino di aver udito le forti palpitazioni che da esso provenivano.5 Un tale particolare dono mistico è proprio il segno dell’amore estasiato che ogni cristiano deve ospitare nel suo cuore. Tale amore deve essere allo stesso tempo affettivo, ossia, un atto della volontà che tende a Dio in maniera diretta e immediata, ed effettivo, riflettendosi nell’esercizio delle virtù cristiane e nell’obbedienza ai Comandamenti, come ha insegnato il Divino Maestro: “Se uno Mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14, 23). In senso opposto, San Giovanni Evangelista è categorico nel dichiarare: “Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (I Gv 2, 15). Di conseguenza, amare con tutto il cuore significa lasciar andare ogni considerazione egoistica e avere le intenzioni rivolte esclusivamente a Dio, facendo tutto con Lui e per Lui. Così sarà il nostro amore in Cielo, dove vedremo Dio faccia a faccia e saremo assorti nella sua infinita grandezza.
Come amarLo, ancora, con tutta l’anima? Sappiamo che l’anima possiede varie facoltà – come intelligenza, volontà, memoria – con le quali possiamo rivolgerci a Dio. Per praticare la carità è indispensabile mantenere la nostra anima sempre in stato di grazia, allontanandoci da quello che possa indurci a rompere con Dio, cioè, rimanendo vigili, per evitare le occasioni di peccato. Dobbiamo, inoltre, creare intorno a noi un clima soprannaturale propizio a che queste potenze, divinizzate dalle virtù e dai doni dello Spirito Santo, si sviluppino e ci uniamo sempre di più a Dio.
“Con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”
San Tommaso d’Aquino6 spiega che la mente è la potenza che ci fornisce la conoscenza della verità. Ora, essendo Dio la Verità Assoluta, la finalità della mente è conoscere tanto Dio quanto sia possibile in questo mondo, in funzione dell’eternità, secondo l’affermazione di Nostro Signore: “Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l’unico vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Da quest’ottica, la fede e la mente si armonizzano senza nessuna dicotomia. Mentre l’intelligenza dà il sostegno razionale per aderire all’oggetto della fede, questa sublima quella, facendola volare come un’aquila. In questo modo, la ragione illuminata dalla virtù della fede è uno strumento per crescere nella carità e per prepararci a contemplare Dio nella sua luce nel Cielo, dove la fede si muterà in visione. Sarà difficile trovare un modello migliore per questo dello stesso Dottore Angelico. Senza mai insuperbirsi egli ha usato la sua intelligenza – forse la più luminosa che i secoli abbiano contemplato – nella costante ricerca di quella Verità in essenza, fine unico della sua vasta opera, meritando da un Papa il seguente elogio: “la sua dottrina non sarebbe potuta esistere senza un miracolo”.7 E questa genialità intellettuale non gli fu di ostacolo per conservare integra l’innocenza battesimale, al punto che il sacerdote che lo ascoltò in Confessione generale sul letto di morte, dichiarò di averlo trovato “tanto puro quanto un bambino di cinque anni”.8
E qual è la forza con la quale siamo tenuti ad amare? La risposta ci viene data dal Divino Redentore: “Come il Padre ha amato Me, anch’Io ho amato voi” (Gv 15, 9). Se Egli ci ha amato fino all’estremo (cfr. Gv 13, 1) e questa è la misura del suo amore, reciprocamente il nostro deve esser smisurato, come insegna San Bernardo.9 L’amore autentico e puro esiste quando colui che ama restituisce in proporzione all’amore ricevuto. Non ci basta raggiungere un determinato grado di carità e in esso rimanere stagnanti; la nostra meta dev’essere quella indicata da San Paolo: “la vostra carità cresca sempre più” (Fil 1, 9).
La primazia dell’amore a Dio
Nonostante la sua importanza, questo Comandamento viene spesso taciuto e relegato nell’oblio. Si propaga e si diffonde l’idea che il precetto più eccelso e superiore a tutti sia l’amore per il prossimo… Tuttavia, quello dell’amore a Dio è, senza dubbio, il più elevato, e gli altri vengono dopo. Per questo, è necessario costruire la nostra vita in funzione sua, facendo attenzione che le nostre occupazioni non si sovrappongano mai all’amore a Dio, ma ci aiutino a servire meglio e lodare Colui che ci ha redento, versando per noi il suo Sangue. Qualunque sforzo, pertanto, che non sia dominato da questo proposito, anche nel campo dell’apostolato, sarà vano. Sant’Antonio Maria Claret10 comparava l’amore a Dio con la polvere da sparo che spinge il proiettile sparato da un fucile a raggiungere il suo obiettivo. Senza questa, il proiettile è inutile. Allo stesso modo, poco o nessun frutto avranno dotte parole se non usciranno da un cuore infiammato. “Al tramonto di questa vita” – dice San Giovanni della Croce – “sarete giudicati secondo l’amore”.11 Infatti, nel giorno del Giudizio il Signore ci chiederà: “Cosa hai amato? Se hai amato Me, il mio Regno ti è riservato; se il contrario di Me, ti attende l’inferno”. Insomma, tutto si riduce alla carità. Se la pratichiamo con perfezione, o per lo meno, a dispetto delle nostre miserie, se ci sarà impegno da parte nostra, Dio ci tratterà con speciale benevolenza.
III – Il secondo Comandamento
Al termine di ogni giorno della creazione, Dio vide che il suo lavoro era buono e nel settimo, contemplando la sua totalità concluse che era ottimo. Questa distinzione mostra quanto l’insieme Gli dà più gioia che una persona considerata individualmente. La sua intenzione nel creare l’uomo non è stata di renderlo un anacoreta del deserto – salvo rare eccezioni –, ma di farlo vivere in società, come si deduce dalle parole della Genesi: “Non è bene che l’uomo sia solo” (2, 18).
Per tale ragione, indicando il più grande dei Comandamenti, Gesù Cristo non separa l’amore a Dio dall’amore al prossimo: “questi due Comandamenti sono vincolati uno all’altro e possono interscambiarsi tra loro: chi ama Dio ama le sue opere. La principale opera fatta da Lui è l’uomo: di conseguenza, chi ama Dio deve amare tutti gli uomini”.12 L’amore a Dio non sarà mai vero se non si svilupperà in amore al prossimo, come afferma San Giovanni: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (I Gv 4, 20). Il Salvatore coniuga questi amori per mostrare come essi costituiscano quello che c’è di più alto nella Legge divina.
Chi era il prossimo per un israelita?
31 “Il secondo è questo: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non c’è altro Comandamento più grande di questi”.
Sebbene il Maestro facesse riferimento a un noto passo della Legge (cfr. Lv 19, 18), il fatto di attribuire tale importanza all’amore del prossimo suonava come una novità. Per i suoi ascoltatori questa seconda parte non sintetizzava gli altri Comandamenti così bene quanto la prima, perché il rapporto umano era compreso dal popolo eletto secondo criteri molto restrittivi. Una delle difficoltà stava nel concetto di prossimo, come si può capire dalla domanda di un altro dottore della Legge, a cui Gesù ha risposto raccontando la parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10, 25-37).
C’era tra i Giudei un equivoco nel modo di considerare il prossimo, la cui origine risale al tempo del loro arrivo nella Terra Promessa. Prima di introdurre il popolo a Canaan, Dio aveva fatto un patto con Mosè, ordinando che espellessero tutti i pagani che vi abitavano e proibendo loro di stabilire qualsiasi tipo di alleanza reciproca (cfr. Nm 33, 50-56). Accadde, però, che fiutando la possibilità di benefici materiali che potevano trarre dagli occupanti di quella regione, ruppero il giuramento e si unirono agli idolatri (cfr. Gdc 1, 27-35). Come castigo, un Angelo riunì gli Ebrei in un luogo chiamato Bochim – che vuol dire “quelli che piangono” – e annunciò che sarebbero stati fatti schiavi da quegli stessi popoli (cfr. Gdc 2, 1-5).
Tutto questo ha contribuito alla formazione tra gli Israeliti di un’idea molto ristretta di chi fosse il prossimo: solamente i figli della nazione eletta. Gli stranieri, però, erano ritenuti creature destinate all’inferno, a meno che non assimilassero la Religione di Israele e si sottomettessero ai loro rituali. Soltanto in questo caso sarebbero stati ammessi, tuttavia con riserva, come i più distanti tra i prossimi.
Un Comandamento antico, con una visione nuova
Gesù universalizzava la nozione di prossimo con qualcosa di inedito che non aboliva la legislazione in vigore – con tanta frequenza inosservata –, ma la completava e portava alla perfezione. Davanti a quegli uomini dai costumi barbari, il cui trattamento si basava su una valanga di disprezzo, Egli indicava una misura di amore di gran lunga superiore a quella della Legge Mosaica, come più tardi ancora avrebbe annunciato: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come Io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Amore questo che è possibile solo con l’aiuto della grazia, non con lo sforzo umano. Bisogna, dunque, dare, dare se stessi, darsi interamente e, se è necessario, dare la vita a imitazione del Signore Gesù, affinché il nostro fratello riceva tutti i benefici della Redenzione e si salvi. È una prospettiva nuova non solo per l’epoca di Nostro Signore, ma anche per noi che, sebbene nati nel regime della grazia, siamo stati concepiti nel peccato originale e abbiamo la tendenza di delimitare il nostro amore secondo i criteri della Legge Antica.
Tra gli innumerevoli episodi della Storia della Chiesa che manifestano questo principio, è molto eloquente quello del presbitero Sapricio, nel III secolo. In procinto di ottenere la corona del martirio, durante la violenta persecuzione di Valeriano, si rifiutava ancora una volta di perdonare il suo discepolo Niceforo, con cui era entrato in grave conflitto qualche tempo prima. Infine, con la testa già sul ceppo per essere tagliata dal carnefice, l’orgoglio fu più forte e Sapricio rinnegò la Fede, per bruciare incenso agli idoli, mentre San Niceforo veniva sacrificato al suo posto.13 A nulla è servito, nell’ora suprema, un preteso amore a Dio a chi aveva chiuso il suo cuore davanti al fratello che implorava con umiltà la riconciliazione.
L’esempio di Cristo: amore al Padre e amore a noi
Alla luce della dichiarazione del Divino Maestro e di casi come il precedente possiamo comprendere la verticalità e l’orizzontalità della legge dell’amore. Da questo punto di vista, la Santa Croce è la figura che sintetizza la lezione di questa Liturgia. La Croce è composta da una trave verticale, che rappresenta le potenze della nostra anima concentrate in Dio, sopra ogni cosa, e una orizzontale, simbolo dell’amore al prossimo come a noi stessi – un prolungamento dell’amore a Dio – e della chiamata a sacralizzare la società, in vista della realizzazione della richiesta reiterata da duemila anni dalla Chiesa militante: “venga il tuo Regno; sia fatta la tua volontà, come in Cielo così in Terra” (Mt 6, 10).
IV – Capiva che doveva amare, ma… amava?
32 Lo scriba Gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di Lui; 33 amarLo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.
L’esclamazione del legista denota il suo interesse e buona volontà ad accettare gli insegnamenti di Cristo, come pure il suo stupore per la risposta, perché non avrebbe saputo interpretare questo precetto mosaico con tale precisione. Egli ripete ciò che Nostro Signore aveva detto, e aggiunge che amare Dio e il prossimo “vale più di tutti gli olocausti”. Come afferma San Beda, “professava manifestamente la dottrina propria del Nuovo Testamento e della perfezione evangelica”,14 difendendo un’autentica tesi cristiana, inimmaginabile rispetto alla mentalità e ai costumi dei farisei. Infatti, essi mentivano, rubavano, commettevano ogni specie di crimini e ritenevano che l’offerta di una vittima fosse sufficiente a lavare queste colpe, perché il sacrificio superava tutti gli altri atti. In questo senso, il maestro della Legge aveva fatto un grande passo, ma ancora doveva farne un altro più importante.
L’intelligenza ci lascia alle porte del Regno di Dio
34a Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal Regno di Dio”.
Le parole di Cristo sono pesate, contate e misurate, obiettive e con un significato esatto. Egli non ha detto che era arrivato al Regno di Dio, ma che lo scriba era vicino ad esso. Questi aveva risposto “saggiamente”, perché era capace di discorrere sul Primo Comandamento con facilità, avendo molto chiara tutta la teoria a riguardo, ma era carente di spirito soprannaturale. La buona dottrina, infatti, è un aiuto prezioso – di un valore assoluto in quanto fondata sulla Parola di Dio – e non può esser disprezzata. Tuttavia, non è sufficiente conoscerla… E ogni volta che gli uomini si basano su semplici ragionamenti e non cercano la sapienza derivata dall’amore puro e integro, sorgono le eresie.
L’intelligenza, pertanto, non è bastata al maestro della Legge; le sue capacità naturali avevano raggiunto il limite massimo. Che cosa gli mancava? La virtù della carità perfezionata dal dono di sapienza. Infatti acquisire vaste conoscenze con la retta applicazione dell’intelligenza è qualcosa di eccellente, che ci approssima al Regno dei Cieli; ciò nonostante, in esso entra solo chi ama e vive quello che ha appreso, come prescrive il Comandamento citato a memoria dal fariseo. Quando, durante una predicazione, hanno annunciato a Gesù che sua Madre e i suoi fratelli erano fuori e desideravano vederLo, Egli ha risposto: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21).
Quel maestro della Legge era invitato, allora, ad abbandonare i concetti farisaici e ad accettare Nostro Signore come la personificazione della Legge e il compimento delle profezie, riconoscendoLo come suo Creatore e Redentore, lo stesso Dio Incarnato. L’applicazione concreta che mancava a quell’uomo era dire con fede: “Io devo amarTi, Signore, con tutta la mia intelligenza, con tutta la forza della mia volontà, con tutta la mia sensibilità. E se Tu insegni che devo amare il mio prossimo come me stesso, il mio obbligo è amarTi molto più che me stesso e servirTi”. Agendo così, egli parlerebbe non solo con l’intelligenza, ma con il cuore, praticherebbe il Primo Comandamento e sarebbe in possesso del Regno.
Nostro Signore zittisce i suoi avversari
34b E nessuno aveva più il coraggio di interrogarLo.
Questo dialogo chiude la sequenza di discussioni raccolte da San Marco, da cui Gesù è uscito vittorioso su tutti i suoi avversari. Essi hanno confermato che il Divino Maestro era imbattibile e si sono convinti che solo con altri mezzi sarebbero riusciti a raggiungere l’obiettivo di ridurLo al silenzio. “Dopo essere stati confutati non chiedono più, ma Lo catturano audacemente e Lo consegnano al potere romano”,15 conclude San Beda.
V – Conoscere o amare?
San Tommaso16 dimostra che l’intelligenza e la volontà hanno movimenti contrari: mentre la prima porta a sé l’oggetto conosciuto, la seconda vola verso la cosa amata. Intendendo che qualcosa è inferiore a noi stessi, le conferiamo un valore maggiore di quello che ha nella realtà. Per esempio, quando analizziamo una coccinella e notiamo le relazioni esistenti tra lei, l’ordine dell’universo e Dio, e sviluppiamo una filosofia a suo riguardo, attribuendole qualità che, assolutamente parlando, probabilmente non possiede, la coccinella si arricchisce nella nostra mente. In senso opposto, tentando di comprendere ciò che, di per sé, è superiore a noi – un santo uomo, un personaggio pieno di sapienza… –, finiamo per sminuirlo, in modo che si adatti al nostro intelletto.
Allo stesso modo la volontà, a sua volta, realizza la traiettoria inversa e si piega sull’oggetto così com’è, e trattandosi di qualcosa di minore rispetto a noi, essa si impoverisce; invece, rispetto a quello che c’è di più elevato, essa si dilata. Soprattutto se amiamo la Madonna e Dio, la nostra volontà assume proporzioni straordinarie. Ecco il segreto della forza dei grandi uomini, capaci di sublimi atti di eroismo: essi amano veramente.
L’amore è più importante, ma non disdegniamo l’intelligenza
Conoscenza e amore! Due ali che hanno bisogno di essere ben aggiustate e coltivate per alzare il volo nel firmamento della santità. In accordo con le regole del paracadutismo, nella caduta libera è indispensabile mantenere le braccia aperte e ferme, al fine di ottenere stabilità, poiché basta chiudere uno dei due arti che il corpo ruota e perde l’equilibrio. La stessa cosa accade nella vita spirituale quando tentiamo di volare con un’ala soltanto.
Tutti noi abbiamo l’obbligo di studiare e portare l’intelligenza fin dove può, secondo la misura di ognuno. Questo impegno, tuttavia, deve essere accompagnato da un amore a Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza, adeguando la vita alla dottrina appresa e cercando di esercitarci al massimo nella virtù. Per un cattolico, i Comandamenti sono come un scala mobile, i cui dieci gradini lo conducono alla perfezione, con amore. Ora, questo è possibile solo con l’impulso della grazia, con l’assistenza di Nostro Signore Gesù Cristo e in unione con Maria Santissima. In Loro sta la nostra forza, in Loro dobbiamo porre la nostra sicurezza, in Loro troveremo gli elementi e l’equilibrio necessario per intendere e per amare. Abbiamo dunque una corrispondenza piena di luce e di sostanza per dare a Loro tutta la gloria, l’onore e la lode che meritano!
1) TROCHU, Francis. O Cura d’Ars. São João Batista Maria Vianney. 2.ed. Petrópolis: Vozes, 1959, p.451. 2) TUYA, OP, Manuel de. Biblia Comentada. Evangelios. Madrid: BAC, 1964, v.V, p.490. 3) SAN GIOVANNI DELLA CROCE. Cántico espiritual. C.XIII, n.12. In: Vida y Obras. 5.ed. Madrid: BAC, 1964, p.663. 4) SAN BASILIO MAGNO. Homilia in psalmum LXIV. C.II: MG 29, 392. 5) Cfr. MAYNARD, Theodore. Il buffone di Dio. Vita di San Filippo Neri. Genova-Milano: Marietti, 2011, p.50-51. 6) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.2, a.1; a.3. 7) TOCCO, Guillaume de. L’histoire de Saint Thomas d’Aquin. Paris: Du Cerf, 2005, p.145. 8) Idem, p.126. 9) Cfr. SAN BERNARDO. Tratado sobre el amor a Dios. C.VI, n.16. In: Obras Completas. 2.ed. Madrid: BAC, 1993, v.I, p.323. 10) Cfr. SANT’ANTONIO MARIA CLARET. Autobiografía. P.II, c.30, n.438-441. In: Escritos autobiográficos. 2.ed. Madrid: BAC, 1981, p.259-260. 11) SAN GIOVANNI DELLA CROCE. Dichos de Luz y Amor, n.59. In: Vida y Obras, op. cit., p.963. 12) TEOFILATTO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO. Catena Aurea. In Marcum, c.XII, v.28-34. 13) Cfr. BERNET, Anne. Les chrétiens dans l’Empire Romain. Des persécutions à la conversion. Ier–IVe siècle. Paris: Perrin, 2003, p.384-385. 14) SAN BEDA. In Marci Evangelium Expositio. L.III, c.12: ML 92, 256. 15) Idem, ibidem. 16) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.23, a.6, ad 1; I, q.108, a.6, ad 3.
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