Vangelo
“In quel tempo, 38 Gesù mentre insegnava diceva a una grande moltitudine: ‘Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze; 39 avere i primi seggi nelle Sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40 Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave’. 41E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. 42 Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. 43 Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12, 38-44)
Dare, dare di sé, darsi del tutto!
Di fronte alle menzognere apparenze derivate dall’orgoglio, manifestate nell’ipocrisia dei dottori della Legge, Nostro Signore ci esorta a esser sinceramente generosi come la povera vedova, dando tutto di noi stessi per amore a Lui.
I – La gioia di dare
Quando analizziamo la natura, troviamo un fenomeno diffuso in tutta la creazione, dal regno minerale fino al mondo degli esseri angelici.
Il Sole diffonde sempre la sua luce e il suo calore sulla Terra, beneficiando tutti gli esseri che hanno bisogno di questa irradiazione. Le acque, nel loro costante movimento, evaporano e costituiscono nuvole che, dopo essersi caricate, scaricano al suolo elementi indispensabili per la vita. Costatiamo la straordinaria varietà e la sovrabbondanza di pesci che popolano i mari e i fiumi per alimentare l’uomo, o la ricchezza di frutti che la terra gli offre durante tutto l’anno.
Vediamo qui come la natura, per così dire, cerca di darsi. Se i suoi elementi fossero passibili di felicità, l’albero fruttifero, per esempio, avrebbe un giubilo enorme per il fatto di produrre frutti e offrirli all’uomo; il mare si sentirebbe felice di consegnargli i pesci e la gioia del Sole consisterebbe nell’illuminare e riscaldare costantemente la Terra e coloro che vi abitano. Dunque, questa generosità che avviene nell’universo intero è il principio sul quale si fonda la Liturgia di oggi: dare, dare di sé, darsi del tutto!
II – Contrasto tra egoismo e generosità
Per intendere bene il passo evangelico scelto dalla Chiesa per questa domenica, dobbiamo considerare che i Sacri Vangeli non furono scritti semplicemente come un libro comune, una storia per far bene alle anime pietose dei primi tempi del Cristianesimo. Innanzitutto, essi furono una convocazione all’auge spirituale, a una perfezione come quella del Padre del Cielo. Ma non solo questo: divennero anche un elemento di polemica, visto che i primi divulgatori della Buona Novella, nella loro azione apostolica, trovarono davanti a sé ostacoli da superare. Quando San Marco elaborò il suo Vangelo, uno di questi intoppi proveniva da uomini esperti nella Legge di Mosè e nelle Scritture dell’Antico Testamento.
Teniamo presente anche questo: l’Evangelista visse a Roma per molto tempo, come ausiliare di San Paolo e di San Pietro, e scriveva con lo scopo di raggiungere il pubblico romano, com’è opinione comune degli esegeti. In quel tempo molti giudei risiedevano nella capitale dell’Impero e un buon numero di loro stava entrando a far parte delle fila cristiane. Tanto chi rimaneva nella Sinagoga quanto i neoconvertiti (prima di avere una conversione piena, il che non era facile) volevano a ogni costo far prevalere i loro costumi e la Legge di Mosè tra i cristiani, anche nell’ambiente di quelli provenienti dalla gentilità. Possiamo confermarlo nella Lettera di San Paolo ai Romani, nella quale egli rimprovera lungamente i giudei di Roma per tale atteggiamento.
Mentre San Luca e San Matteo non si mostrano così contundenti di fronte a questa situazione, San Marco polemizza instancabilmente, in modo particolare contro i dottori della Legge, poiché costoro ingarbugliavano la sua azione apostolica, come risulta chiaramente dai frequenti riferimenti a loro rivolti nel suo Vangelo.1
Non risparmiando meritate critiche, San Marco dà risalto alle discussioni di Nostro Signore con loro e da queste trae ricchissime lezioni morali per i cristiani di tutti i tempi. È quanto contempliamo nel primo versetto di questo Vangelo.
Ammonire le moltitudini contro l’ipocrisia
“In quel tempo, 38 Gesù mentre insegnava diceva a una grande moltitudine: ‘Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze; 39 avere i primi seggi nelle Sinagoghe e i primi posti nei banchetti'”.
È importante mettere in risalto il dettaglio indicato dall’evangelista: Gesù parlava a “una grande moltitudine”. Fu, pertanto, un insegnamento destinato a tutti e dato senza tergiversare, ammonendo il popolo contro i dottori della Legge, per le ragioni esposte a seguire.
Secondo i costumi dell’epoca, era naturale che chiunque facesse venie speciali quando passava un dottore della Legge, cui erano riservati i posti d’onore nelle cerimonie pubbliche. Come fa notare padre Tuya, la piazza pubblica, o agorà, era il centro commerciale e sociale della città, per questo, agli scribi e ai farisei piaceva, con i loro vistosi indumenti, passeggiare lentamente e gravemente in questo luogo, per ricevere i saluti del popolo. Ambivano in modo speciale il titolo di Rabbi (mio Maestro). “Nelle assemblee, i posti erano assegnati non solo in ragione dell’età, ma anche della dignità del personaggio, per esempio, della sua sapienza. Siccome i posti designati in ragione della dignità erano molto meno numerosi di quelli destinati alle persone per motivo di età, i farisei volevano, per ostentazione e vanità, che nei banchetti gli fossero dati questi primi posti, per mettere in risalto così la loro dignità. […] Era un’ansia smodata, infantile e quasi patologica di vanità e superbia”.2
Una lettura superficiale dei due versetti sopra trascritti potrebbe portare a credere che non si debbano usare abiti belli, salutare con cortesia o favorire la gerarchia nelle relazioni sociali. D’altronde, gli indumenti nobili e decorosi si stanno abbandonando, in virtù della mentalità dei giorni nei quali stiamo entrando. Predomina il brutto per il brutto e l’egualitario per l’egualitario. Si sta generalizzando il gusto di vestirsi il più negligentemente possibile, in modo da potersi sedere per terra; entrano nella moda il brutto, il vecchio, lo stracciato e l’immorale, mentre si semplificano al massimo i costumi, in un modo che nemmeno gli esseri irrazionali farebbero. Non è questo ciò che Nostro Signore voleva per i suoi seguaci.
Nostro Signore nella sinagoga di Cafarnao Il problema non sta nell’abbigliamento appariscente o nelle onoranze, ma nel voler richiamare l’attenzione su di sé, vale a dire, nell’aver l’intenzione, non di lodare Dio, ma di lodare se stessi. I costumi enumerati da Nostro Signore, di per sé legittimi in alcune circostanze, erano del gusto dei dottori, più per superbia che per ammirazione per le cose belle, per il desiderio di glorificare Dio o per l’intento di far bene al prossimo. Il loro obiettivo era vanagloriarsi, ostentare superiorità, in fondo, essere “adorati”, incensati dagli altri. Usurpavano, infatti, il luogo centrale appartenente a Dio. Quell’apparato di dignità, quell’apparenza di onore, rispetto e saggezza avrebbero dovuto corrispondere alla realtà; ossia, è la vita di tali dottori che avrebbe dovuto renderli creditori di questi omaggi.
Invece, la realtà era molto differente e Nostro Signore la denuncerà.
L’apparenza, manto di una realtà peccaminosa
40 “Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave'”.
Nell’Antico Testamento, le vedove avevano molto poca protezione e, così, uomini privi di scrupoli cercavano di strappare loro quanto potevano. Comune era il caso di vedove senza figli adulti, alle quali toccava la responsabilità di amministrare la fortuna della famiglia. In questa situazione di abbandono, come indica Nostro Signore, s’introduceva un maestro della Legge che, con la scusa di pregare, terminava per rapinare i loro averi.
Denunciando questo tipo di azioni, il Divino Maestro chiariva ai suoi ascoltatori quanto i dottori della Legge rappresentassero esteriormente quello che di fatto non erano. Conoscevano tutti i meandri della Legge, senza praticarla… In realtà, si comportavano come voraci divoratori di fortune altrui. Più ancora, essendo periti di legge, sapevano bene condurre i processi giuridici che circondavano ogni causa di successione e, con ciò, avevano maggior facilità a finire per impossessarsi del denaro.
Pertanto, sotto l’apparenza di virtù si celava una mentalità da vampiro, il cui fine era strappare agli altri, in forma ingiusta e senza scrupoli, quanto fosse possibile.
Le funeste conseguenze dell’orgoglio
Questo ci serva da ammonimento contro i pericoli dell’orgoglio. Ogni vanità – quando accettata con indulgenza, come accadeva a questi dottori – finisce per condurre alla disobbedienza dei Comandamenti di Dio. Condizione essenziale per mantenersi fedeli alla Legge è l’umiltà; la chiave della pratica duratura di tutti i precetti divini è questa virtù.
Nel caso dei dottori della Legge, l’egoismo orgoglioso, aggravato dalla doppiezza di spirito, l’ipocrisia di rappresentare in maniera pomposa quello che non si è, li rende meritevoli della “peggior condanna”, secondo l’energica espressione dello stesso Uomo-Dio: la dannazione eterna, nell’inferno, castigo adeguato per chi, prendendo le vie dell’orgoglio, si impelaga nella disonestà e in altri peccati. Fuggiamo, dunque, da ogni vanagloria, per non finire per rompere con gli altri Comandamenti della Legge di Dio, e abbiamo la certezza di questa verità: alla radice di ogni peccato grave c’è sempre l’orgoglio.
Fare il bene per ostentazione
41 “Gesù, sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte”.
All’esempio dato sul comportamento dei legisti, Nostro Signore contrappone la scena che segue. Esistevano nel Tempio tredici casse per il deposito delle elemosine. “Il gazofilacio, o tesoro del Tempio”, ci informa padre Tuya, “era situato nell’atrio delle donne. Probabilmente c’erano varie camere per la custodia di questi tesori. Nella parte anteriore, secondo la Mishnah, c’erano tredici botole a forma di tromba, dall’apertura molto grande all’esterno, da dove si gettavano le offerte”.3
In quella piccola società – al contrario degli agglomerati di persone anonime, tipica delle grandi città moderne – tutti si conoscevano, pertanto, chi faceva l’elemosina attirava molto l’attenzione.
Ricordiamo anche che allora non esisteva la moneta, in carta ma soltanto monete coniate in metallo nobile come l’oro e l’argento o in metalli di minor valore. Così, queste casse assecondavano molto il desiderio di ostentazione. Chi possedeva una grande fortuna poteva con facilità scaricarvi enormi quantità di monete, in maniera appariscente e rumorosa, ostentando di fronte ai presenti la sua presunta generosità. Come Nostro Signore aveva denunciato in un’altra occasione (cfr. Mt 6, 2), con frequenza l’azione di questi ipocriti era preceduta da squilli di tromba per annunciare che l’elemosina veniva data. Fatto questo, un nuovo squillo indicava l’uscita del donatore. Costui se ne andava coperto di gloria, centro dell’ammirazione delle persone presenti, che sussurravano elogi… calcolando, senza dubbio, qual era il montante depositato nella cassetta.
Seduto nel Tempio “davanti alla cassa delle elemosine”, il Divino Maestro osservava in silenzio questa scena tanto comune per chi conosceva il posto.
Uno smisurato contrasto
42 “Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino”.
È importante evidenziare il contrasto dei due atteggiamenti. Possiamo immaginare la vedova, ormai di una certa età, che trascina i piedi, piegata per gli acciacchi del tempo. Secondo padre Tuya, lei gettò due “spiccioli”, l’equivalente di sedici parti di un denario, cioè, un’inezia, poiché “il denario era considerato come il salario quotidiano di un lavoratore”.4
Paragonato al pomposo rumore delle monete lanciate dai ricchi, si riduceva a quasi nulla il lieve rumore prodotto dalle due monetine della povera donna. Senza dubbio, poca impressione causò a coloro che si trovavano lì intorno, molto preoccupati a calcolare il valore approssimativo delle elemosine che erano depositate. Come vedremo poi, non aveva nulla di più da dare in offerta, forse per il fatto che la sua antica fortuna era stata dilapidata da qualche approfittatore, secondo la denuncia fatta da Gesù poco prima.
Di fronte a questa scena, Nostro Signore rompe il silenzio per trarne un salutare insegnamento.
La vera generosità
43 “Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere'”.
L’impressione prodotta da queste prime parole del Maestro deve esser stata grande. Come poteva la povera vedova aver dato “più di tutti gli altri”, se questi avevano versato una grande quantità di monete d’oro, mentre lei appena due monetine di valore insignificante?
Per chiarire il suo insegnamento, Gesù spiega: la vedova gettò nella cassetta quanto “possedeva per vivere”, mentre i ricchi diedero quello che gli avanzava. Facendo questo paragone, Cristo non voleva condannare i ricchi, ma elogiare quella donna per il fatto che non aveva tenuto nulla per sé. Infatti, quando un ricco consegna l’integrità dei suoi beni, dà di più rispetto a chi fa lo stesso, ma dispone di poco. Era il caso, per esempio, di Lazzaro, Marta e Maria, membri di una facoltosa famiglia di Israele, i quali si consegnarono interamente a Nostro Signore.
Quella vedova aveva dato tutto, mettendosi nelle mani di Dio. C’è proprio da credere che lo stesso Gesù le avesse concesso la grazia di procedere così, proponendoSi di proteggerla. Senza che questa lo sapesse, Egli concedeva alla povera donna un bene superiore a qualsiasi altro: la gloria di esser elogiata dal Verbo Incarnato. In questa compiacenza di Nostro Signore verso di lei, entrava una predestinazione alla gloria eterna.
All’estremo opposto stavano i maestri della Legge: questi “divorano le case delle vedove, fingendo di fare lunghe orazioni”, motivo per il quale “riceveranno la peggior condanna” (Mc 12, 40).
Dio conosce le intenzioni del cuore
In questi versetti, Nostro Signore contrappone l’episodio delle elemosine alla denuncia fatta precedentemente contro i dottori della Legge. In entrambi i casi, vediamo negli atteggiamenti dei personaggi l’esteriorità, ma non l’intimo. Tuttavia, “lo sguardo di Dio non è come quello dell’uomo, poiché l’uomo guarda all’apparenza, mentre Dio guarda al cuore” (I Sm 16, 7). Questo divino sguardo ci accompagna sempre, nulla gli sfugge. La nostra vita, i nostri atti, il nostro comportamento, sono giudicati con una precisione assoluta dallo sguardo di Dio, il quale penetra nell’intimo di tutti e analizza il fondo delle anime, sapendo perfettamente quello che succede in ognuna.
Comparando la disposizione di spirito dei maestri della Legge con quella della vedova, Gesù voleva render chiara l’esistenza di due estremi: quello della generosità, in contrasto con quello dell’egoismo e dell’amore disordinato a se stessi.
L’attaccamento, che in un ricco si distribuisce tra le sue migliaia di monete, nel caso del povero si concentra in poche. Rinunciare a esse esige non poco sacrificio, ancor più se sono soltanto due, ma quella donna le ha offerte generosamente, depositando la sua intera fiducia in Dio. È il medesimo atteggiamento assunto da un’altra vedova, della città di Sarepta nella Sidonia, contemplata nella prima lettura di questa domenica (I Re 17, 10-16). Quando ricevette il Profeta Elia a casa sua, lei aveva soltanto un pugno di farina e un po’ di olio per fare un ultimo pane per sé e suo figlio. Tuttavia, sollecitata dall’uomo di Dio, fu d’accordo di dargli quest’unico alimento. Per aver agito così, l’olio e la farina si moltiplicarono indefinitamente nella sua dispensa, finché tornò a cadere la pioggia sulla terra. Così è la ricompensa di Dio per chiunque darà con piacere e generosità.
I due poli
Anche noi dobbiamo esser generosi con Dio, quanto Egli è generoso con noi. Dobbiamo consegnarGli tutto! Tuttavia, questo non può esser interpretato come un obbligo di disfarci di quanto ci appartiene e metterci a vivere di elemosine. Poche persone ricevono questa sublime vocazione. Si tratta di comprendere che tutti i nostri beni – e anche noi stessi – sono proprietà di Dio.
La Liturgia di oggi ci presenta un’opzione tra due poli: quello della generosità totale o quello dell’egoismo totale. O scegliamo uno e odiamo l’altro, o viceversa. O siamo interamente di Dio, o siamo interamente di noi stessi. Nelle vie di mezzo non rimane nessuno.
Se abbiamo una vocazione di vita consacrata, dobbiamo essere in ogni momento disposti a dar tutto, non soltanto a causa di un impegno assunto in una cerimonia, ma per la convinzione che la nostra vita è nelle mani di Dio.
Tuttavia, come applicare questo principio alla vita di chi è chiamato a costituire una famiglia e ha, pertanto, il dovere di stato di provvedere nella miglior maniera possibile ai suoi? La risposta è semplice. Questo “dar tutto” non significa disfarsi letteralmente dei propri beni, ma avere in relazione ad essi un’atteggiamento di un tale distacco che non costituiscano delle catene che impediscano l’elevazione dell’anima fino alle cose celesti. Se non è così, si finisce per cadere nella deviazione dei dottori della Legge, denunciata da Nostro Signore in questo passo del Vangelo di San Marco.
III – Nella generosità, la perfetta gioia
L’esempio supremo del dare, dare di sé e darsi del tutto, lo troviamo nella seconda lettura di questa domenica, tratta dalla Lettera di San Paolo agli Ebrei (Eb 9, 24-28). Il Padre aveva un Figlio unigenito, generato da tutta l’eternità, e non creato. Il Suo amore per il Figlio e del Figlio per Lui è così intenso che da Loro procede una Terza Persona, che è lo Spirito Santo.
Nonostante quest’amore sviscerato, il Padre ha deciso di consegnare suo Figlio per riscattare la natura umana, traviata dal peccato. E il Figlio, che avrebbe dovuto incarnarSi nella gloria, dato che la sua anima è nella visione beatifica, ha sospeso questa legge per assumere una natura mortale.5 Egli voleva dare, dare di Sé e darSi del tutto e, per amor nostro, ha assunto un corpo sofferente, soggetto a tutte le difficoltà della vita su questa Terra. “Una volta sola, Egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9, 24-26).
Ecco l’esempio divino, che invita ognuno di noi, secondo i nostri doveri e le nostre possibilità, a dare non solo di quello che ci avanza, ma dare tutto. È Dio che ci ha creato e redento, per questo a Lui apparteniamo. Tutto è Suo e deve tornare a Lui.
Così come il Sole, l’acqua o gli alberi, se fossero passibili di felicità, sarebbero completamente felici col dono generoso di sé, anche noi troveremo la nostra perfetta gioia nel dare, dare di noi e darci del tutto.
Rimedio per le nostre miserie e rifugio contro le tentazioni
Quando uno dà di sé, il suo egoismo finisce per esser soffocato a beneficio del servizio degli altri. Servire – sia dando un buon esempio, un buon consiglio, o prestando un qualche aiuto – ripara le nostre colpe e allo stesso tempo ci allontana dal peccato. Così, un modo di acquistare forze per affrontare le tentazioni è fare dono di noi stessi.
Al contrario, chi si chiude nel suo egoismo, è impreparato per il momento sempre presente della tentazione, poiché ci basta esistere per essere un focolaio di sollecitazioni per il peccato, come dice San Pietro: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (I Pt 5, 8).
Cerchiamo la felicità dove essa si trova
Nulla porta più felicità a un’anima che restituire a Dio quello che Gli appartiene. La giustizia consiste nel “dare a ognuno il suo diritto”.6 Ora, se vengono da Dio tutte le cose che sono state create e sono a disposizione dell’uomo, questi è debitore di tutto quanto ha ricevuto da Lui. Il prestito fa parte degli accordi tra gli uomini. Chi presta resta in attesa della devoluzione del bene imprestato e chi l’ha preso in prestito ha l’obbligo di restituirlo al proprietario. Ora, se così è nei rapporti umani, non possiamo dimenticarci: tutto quello che abbiamo non è che un prestito di Dio! Dalla nostra vita, fino alle nostre capacità e qualità, passando per tutti i nostri beni.
Così saremo liberi, poiché è realmente libero solo chi è giusto, e mette nelle mani di Dio tutto quello che da Lui ha ricevuto.
Darebbe segni di follia chi, avendo perduto qualcosa all’interno di un teatro, andasse a cercarla al di fuori, adducendo che la via è più illuminata. E che cosa fa il mondo odierno? Essendo affondato nell’egoismo, corre dietro alla felicità, dove essa non si trova. Proclamando che la libertà consiste nel consegnarsi alla furia delle passioni e delle cattive inclinazioni, va alla ricerca della felicità nel vizio, nel peccato e in tante follie, dove trova, non la felicità, ma la frustrazione, la depressione e, a volte, le malattie. In questo modo, l’egoismo, fustigato da Nostro Signore nel Vangelo di oggi, già è castigato qui sulla Terra, essendo ancora meritevole della pena eterna.
La vera gioia consiste nella generosità virtuosa, poiché è in essa che l’uomo compie interamente la sua finalità di “conoscere, servire e amare Dio” in questo mondo, in modo da “esser elevato alla vita con Dio nel Cielo”.7
1 Cfr. LAGRANGE, OP, Marie-Joseph. Évangile selon Saint Marc. 5.ed. Paris: J. Gabalda et Fils, 1929, p.328. 2 TUYA, OP, Manuel de. Biblia comentada. Evangelios. Madrid: BAC, 1964, tomo V, p.499-500. 3 Idem, p.710. 4 Idem, p.710-711. 5 Cfr. SAN TOMMASO D'AQUINO. Somma Teologica. III, q.14, a.1, ad 2. 6 Cfr. SAN TOMMASO D'AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.58, a.1. 7 Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n.67.
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