Vangelo
In quel tempo, 5 gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede!” 6 Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: ‘Sii sradicato e trapiantato nel mare’, ed esso vi ascolterebbe. 7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: ‘Vieni subito e mettiti a tavola?’ 8 Non gli dirà piuttosto: ‘Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?’ 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’” (Lc 17, 5-10).
Come affrontare le delusioni?
Nel corso dell’esistenza ci imbattiamo in situazioni impreviste che possono portare allo sconforto. Solo nella fede salda troveremo la forza per affrontarle.
I – l’essere umano vuole rapportarsi con gli altri
Immaginiamo un uomo p unito con l’isolamento, imprigionato nella segreta di una lontana torre, convinto di esser interamente lontano da tutto e da tutti. In questa triste situazione, senza la minima possibilità di comunicazione con persone qualsiasi, vede trascorrere i giorni… Una sera di gran caldo, tuttavia, si sdraia per terra e sente, all’improvviso, un rumore di scopa in piena attività. Sorpreso, si avvicina alla parete, vi appoggia l’orecchio e, percependo dai rumori che si tratta della presenza di qualcuno dal lato opposto, dà alcuni colpi nel muro. La risposta arriva immediatamente. È un altro povero prigioniero che soffre lo stesso problema: isolato, desidera entrare in contatto con qualcuno a cui possa trasmettere le sue afflizioni e che lo capisca in quella infelice situazione. Dopo aver dato molti colpi scoprono che, parlando vicino allo scarico della cella, riescono a farsi sentire l’un l’altro e, a partire da qui, comincia un vero rapporto tra i due prigionieri, che procura loro un’immensa consolazione. Infatti, l’isolamento assoluto che era il maggior tormento di quella prigionia, in quanto feriva l’istinto di socievolezza, in qualche modo, si era rotto con lo stabilimento di questo rudimentale modo di comunicazione. Questa semplice storia ci illustra la necessità intrinseca all’uomo di entrare in contatto con i suoi simili.
Un fenomeno comune al genere umano: il “margine dell’insicurezza”
Tale desiderio naturale, conseguenza dell’istinto di socievolezza infuso da Dio in noi, è inerente a tutti gli uomini.1 Ognuno coltiva in se stesso un intimo desiderio di ottenere protezione, di potersi appoggiare in qualcuno e di sentirsi sicuro, poiché Dio non ha creato l’uomo autosufficiente. Questo ha numerose carenze e debolezze che riesce a sopperire solo vivendo in società e con l’aiuto reciproco dei suoi simili. Per questo, egli deve avere una fede umana negli altri. Ed è comprensibile, poiché “senza la fede umana, la vita sociale sarebbe totalmente impossibile, e buona parte delle nostre conoscenze – che crediamo esser certe e sicure – crollerebbero strepitosamente”.2 Nel frattempo, non esiste la possibilità di applicare questa fede con totale sicurezza a nessuno sulla faccia della Terra, poiché, “per natura, nessuna persona adulta è al di sopra o al di sotto di un’altra a tal punto che una possa elevarsi di fronte all’altra come autorità di valore assoluto”.3 Tutti sappiamo come la natura umana sia fallibile in conseguenza del peccato originale e, per questo, siamo portati a confrontare i nostri criteri con l’opinione degli altri per diminuire la probabilità di errore, soprattutto, per quanto riguarda la ricerca della verità. Non è senza motivo che Sant’Agostino consiglia: “Che nessuno di voi voglia porre la sua speranza nell’uomo. L’uomo è qualcosa solamente in quanto aderisce a Colui che lo ha fatto. Poiché, se da Lui si allontana, non è più niente, anche quando aderisce ad altri uomini”.4
E siccome il genere umano è soggetto all’errore morale e intellettuale, l’uomo con frequenza tradisce la fiducia degli altri, avvalendosi solamente della propria natura, poiché senza la grazia è l’egoismo che prevale sull’amore del prossimo. Si è scatenata così per l’umanità un’instabilità fondamentale, denominata dal Prof. Plinio Corrêa de Oliveira “margine d’insicurezza”, ossia, “una specie di margine dello spirito umano, che non elimina la possibilità di conoscere alcune verità con una certa fermezza – però, appena crepuscolare –, mista a insicurezza”.5 In questo modo, accumuliamo dentro di noi mille indecisioni, non essendoci, né in noi né negli altri, la garanzia piena di agire in modo corretto. A mano a mano che gli anni e i decenni passano, il problema si aggrava. L’esperienza della vita va registrando le disillusioni e le amarezze. Constatiamo un equivoco qui, un errore lì, un inganno colà… E concludiamo che non si può depositare la fiducia nell’uomo. Come risolvere, allora, questo problema del “margine d’insicurezza” e acquisire certezze ferme?
Ora, se la fallibilità naturale dell’uomo rende inconsistente la fiducia nel suo simile, questo, tuttavia, non succederà se ci sarà l’azione di questa virtù soprannaturale, in relazione a Dio, la cui pratica diventerà possibile con la grazia, e il cui agire non è altro che quello della virtù teologale della speranza rafforzata da una ferma convinzione, come dice San Tommaso,6 e come sintetizza il grande tomista padre Santiago Ramírez, seguendo la via del suo maestro: “Speranza perfetta e robusta nel suo genere, che si chiama propriamente fiducia […]. Non è una speranza qualsiasi e vacillante, ma una speranza ferma, decisa, certa, sicura, senza titubanze di nessun genere. Una speranza che non sbaglia né defrauda”.7 È la fiducia che ci dà la certezza che esiste Qualcuno col quale possiamo rapportarci, sicuri di non generare in noi alcun equivoco, di non defraudare mai le nostre speranze legittime. Questi è Dio!
È tale fiducia, senza dubbio, che sarà capace di risolvere la questione del “margine d’insicurezza” celata nell’intimo di tutti gli uomini, liberandoci dall’incertezza che raggiunge quanti si afferrano al mondo materiale, secondo l’insegnamento del Vescovo di Ippona: “Perciò sii fedele a Dio perché immutabile, perché nulla c’è di più bello. Infatti, tutte queste altre cose, per il fatto che non hanno l’essere di per sé, decadono, perché non sono ciò che Egli è. A te, o anima, basta soltanto Colui che ti ha creata. Qualunque altra cosa tu fai propria, è una miseria: evidentemente ti può appagare solo Colui che ti ha creata a sua somiglianza. […] Soltanto là, in Dio, vi può essere sicurezza”.8
La fede viva nei Vangeli
Questa fede, tuttavia, non può ridursi a un semplice principio teorico e dottrinale. Per essere integra, soprattutto nel nostro mondo così agitato, è necessario applicarla a Uno: la Seconda Persona della Santissima Trinità incarnata, il Signore Gesù! I fatti narrati dai Vangeli ci attestano come questa fede viva fosse un dono comunicato a quelli che a Lui si avvicinavano con piena fiducia, come, per esempio, il centurione romano. Egli aveva fede nel potere del Redentore di guarire uno dei suoi servi, anche a distanza, e di lui il Divino Maestro avrebbe affermato di non aver mai incontrato una fede simile in Israele (cfr. Lc 7, 2-10). La fede di quel comandante, che aveva causato ammirazione allo stesso Gesù in quanto uomo, gli era stata infusa da Lui stesso, in quanto Dio. Anche l’ostinata cananea ci ha dato prova di grande fede nel chiedere con tanta insistenza la guarigione della figlia (cfr. Mt 15, 22-28). Ancora una volta era un dono di Dio concesso alla straniera, in un grado che neppure gli stessi Giudei possedevano, forse per non aver voluto accettarla… O il povero lebbroso che, inginocchiandosi a supplicare: “Signore, se tu vuoi, puoi guarirmi!”, ha espresso una fede profonda, ed è stato, per questo, immediatamente esaudito (cfr. Lc 5, 12). Stessa fede ancora si è rivelata nella donna sofferente di emorragia, ormai da lunghi anni. Lei cercava, con umiltà, il momento opportuno per avvicinarsi al Messia, credendo di venire guarita solo toccando l’orlo del suo manto sacro (cfr. Lc 8, 43-48).
Tale era la fede che Cristo desiderava infondere nei suoi Apostoli, in questo passo del Vangelo della 27ª Domenica del Tempo Ordinario.
II – La virtù fondamentale della fede
Nostro Signore già li aveva ammoniti, in occasioni precedenti, rispetto al rischio dell’amore disordinato per le ricchezze – come già abbiamo considerato, commentando la parabola dell’amministratore infedele (cfr. Lc 16, 1-13) e quella del povero Lazzaro (cfr. Lc 16, 19-31), nel Vangelo della 25ª e 26ª Domenica del Tempo Ordinario –, conseguenza di una fede venuta meno. I discepoli andarono, infatti, comprendendo la necessità di questa fondamentale virtù, senza la quale sarebbe stato impossibile perseverare fino alla fine della loro missione. Insegna San Tommaso9 che questa è la principale virtù per avere il distacco dai beni materiali, come anche per la pratica delle altre, le quali, con le parole di padre Royo Marín, “in essa si fondano, come l’edificio sulle sue fondamenta […]. Informata dalla carità, di essa vivono e, grazie ad essa, progrediscono tutte le altre”.10 È, pertanto, indispensabile chiederla a Dio, come ci dimostra il Vangelo di questa Liturgia.
La fede è passibile di crescita?
In quel tempo, 5 gli Apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede!”
Era necessario chiedere questo aumento di fede, se già la possedevano dentro di loro? Senza dubbio, la richiesta degli Apostoli aveva fondamento. La virtu infusa della fede è passibile di incremento o di diminuzione, e tanto può fortificarsi come illanguidire. Come spiega ancora San Tommaso,11 la fede cresce o diminuisce in modo proporzionale al numero di verità conosciute. Per questo motivo, oltre agli atti di pietà e devozione praticati – che rendono anche loro la fede più robusta –, fortificherà questa virtù chi studierà la Dottrina Cattolica, ampliando il quadro di verità conosciute con la propria intelligenza.
Aumenteremo la fede se adatteremo la nostra vita quotidiana – lavori, obblighi e responsabilità – alla fede professata, poiché se ci sarà dicotomia tra questa virtù e la vita pratica, tra quello in cui crediamo e quello che facciamo, la fede finirà per dissolversi. È necessario, dunque, che la fede coroni tutte le nostre attività, come evidenzia padre Royo Marín: “Le anime che sono progredite nella vita cristiana, devono preoccuparsi della crescita di questa virtù fondamentale fino a ottenere che tutta la loro vita sia improntata in un autentico spirito di fede che le trasponga su un piano strettamente soprannaturale, dal quale possano vedere e giudicare tutte le cose”.12 Tuttavia, tale condotta non è così facile da mantenersi. Le difficoltà della vita quotidiana ci fanno giungere a una conclusione: è indispensabile supplicare con fervore l’aiuto divino. Hanno fatto, allora, molto bene gli Apostoli a chiedere l’aumento della fede, che, secondo quanto possiamo giudicare dalla risposta di Nostro Signore, era proprio fragile…
Era necessario aver fede prima di chiedere un suo aumento
6 Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: ‘Sii sradicato e trapiantato nel mare’, ed esso vi ascolterebbe”.
La sua risposta è di una certa durezza. In realtà, la fede dei suoi eletti era ancora più piccola del minuscolo granello di senape, quasi delle dimensioni di una particella di zucchero. Ora, bastava una fede di bassa levatura per ordinare a un albero solido come il gelso di gettarsi in mare. Affermazione sorprendente! Il gelso di questo passo di San Luca probabilmente corrisponde allo Shiquemah – sicomoro –, albero dalle radici vigorose, che si fissano a terra con ogni forza.13 Sarebbe possibile a uno realizzare una tale prodezza? Tuttavia, il Maestro non ha fatto una tale dichiarazione soltanto in forma metaforica. La fede è, infatti, capace di muovere montagne, poiché dietro di essa c’è il potere di Dio, e quando uno si unisce alla forza divina con la robustezza di così preziosa virtù, diventa forte quanto è forte Dio stesso.
A questa concezione vera della fede, Nostro Signore contrappone il concetto errato del mondo riguardo al rapporto dell’uomo con Dio.
Una situazione umana, immagine del rapporto soprannaturale
7 “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: ‘Vieni subito e mettiti a tavola?’ 8 Non gli dirà piuttosto: ‘Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?’ 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’”.
Il Divino Maestro ha davanti a sé ascoltatori con uno spiccato senso gerarchico, pertanto, privi degli egualitarismi dei giorni attuali, e per i quali tutte le funzioni sociali erano molto ben definite. Per questa ragione Gesù ha potuto servirsi, in questa parabola, della figura del servo14, ossia, di quell’uomo senza diritti, il cui lavoro consisteva nel prendersi cura degli animali e dei campi del suo signore, senza che mai qualcuno si sia posto il problema che l’ipotesi da Lui sollevata si verificasse. Sebbene nel popolo eletto il trattamento dispensato agli schiavi fosse incomparabilmente più compassionevole di quello riservato dai popoli pagani,15 era inconcepibile immaginare il servo seduto alla stessa tavola del padrone. Tornato dal lavoro dei campi, il servo si lavava e si rimboccava le maniche per servire il padrone. Solo dopo assumeva il suo pasto.
Questa scena, narrata da Cristo con sapienza infinita, illustra quale deve esser il nostro rapporto con Dio. Quando riusciamo a compiere del tutto i Comandamenti o gli stessi obblighi, dobbiamo riconoscere che non è stato in virtù del nostro sforzo, né delle qualità o capacità personali quanto, piuttosto, è frutto della grazia. Ancor prima di aver realizzato qualche atto buono, Nostro Signore ci ha già pagato in anticipo, concedendoci il suo aiuto. Per questo, pur avendo fatto il bene, non abbiamo diritto, per noi stessi, a nessuna benemerenza. Infatti, così dichiara Sant’Ambrogio, Padre e Dottore della Chiesa: “Nessuno si glori del suo buon procedere, poiché, per una giusta dipendenza dobbiamo il nostro servizio al Signore. […] Egli non può ammettere che ti appropri del merito di un’azione o lavoro, visto che, fin tanto che siamo vivi, è nostro dovere lavorare sempre. Pertanto, vivi con la convinzione che sei un servo al quale sono state comandate molte faccende. […] Non crederti più di quello che sei per il fatto di chiamarti figlio di Dio – devi riconoscere, piuttosto, la grazia, ma non puoi dimenticare la tua natura –, e non riempirti di vanità per aver servito con fedeltà, poiché questo era tuo dovere”.16 Anche quando compiamo i nostri obblighi, continuiamo ad essere servi inutili, ci insegna oggi Gesù.
Concezione commerciale della religione
Data la natura decaduta per il peccato, la tendenza generale dell’uomo è di non riconoscere che tutto gli viene dall’Alto, forgiando per sé una religione caratterizzata dalla mentalità commerciale. Molte volte trasferiamo lo scambio mercantile di interessi – così profondo nelle relazioni umane di tutti i tempi – al rapporto con Dio, e vogliamo presentarci davanti a Lui riscuotendo quello che riteniamo appartenerci per il fatto che abbiamo fatto un bene. In realtà, nessuno sarebbe in grado di pronunciare neppure una giaculatoria o fare un segno della croce con merito soprannaturale se non fosse unito, e addirittura “innestato”, nel Signore Gesù, che ha affermato: “Senza di me, non potete far nulla” (Gv 15, 5). In campo soprannaturale, tutti i nostri meriti sono legati a Lui e ci sono trasferiti da Lui. Siamo semplici servi! Da Lui riceviamo l’essere, la Redenzione e il sostegno della grazia, per mezzo della sua azione.17
L’immagine di questa parabola si trova, allora, ancora distante dalla realtà, poiché il servo lì rappresentato conserva qualche libertà, mentre noi siamo all’interno di una schiavitù coercitiva – la nostra origine è la schiavitù –, la quale, dopo la Redenzione, si è intensificata ancora.
Dio ci premia per quello che Egli stesso ci ha ottenuto
L’uomo deve, dunque, considerarsi un essere contingente, dipendente dagli altri, e cosciente che in relazione a Dio questa dipendenza dovrà esser assoluta. Se esistiamo, è perché – in primo luogo – Egli esiste e, nella sua infinita bontà, ci ha tratti dal nulla, senza il nostro consenso, per darci un’anima nella quale potesse esser introdotta la vita della grazia. Egli ci ha redenti e in ogni istante sostiene il nostro essere. Tutto è, pertanto, gratuito, e quando agiamo alla perfezione stiamo soltanto restituendoGli quello che da Lui stesso riceviamo. Con quanta proprietà la Sacra Liturgia afferma: “Nella festosa assemblea dei Santi, risplende la tua gloria, e il loro trionfo celebra i doni della tua misericordia”.18 Infatti, quando le opere umane meritano un premio da parte di Dio, ciò è dovuto ai doni o alle grazie dati con anticipo da Lui stesso. Essendo Egli l’Umiltà e la Generosità, ci fa lavorare per la sua gloria, ci aiuta a praticare atti di virtù e ancora ci rende meritevoli della sua ricompensa, nascondendoSi, come se i meritevoli fossimo noi.
Tuttavia, tale prodigalità divina esige da parte nostra reciprocità: non appropriamoci mai di quello che appartiene solo a Dio. Siamo “servi inutili”, dovendo chiedere molto la virtù della fede, al fine di comprendere che Egli è l’unico a portare tutto avanti, e a noi tocca soltanto il compimento di un mandato o disegno suo. Così, non possiamo voler esigere da Lui, come se fosse nostra, la gloria dei nostri pretesi meriti. Solo con queste disposizioni d’animo assumeremo l’atteggiamento perfetto nel rapporto con il Creatore.
La perfetta contingenza in relazione a Dio
Una sola creatura ha saputo avere una fede ardente e comprendere la contingenza in modo perfetto, nella sua pienezza, essendo stata oggetto di un dono insuperabile da parte di Dio, “perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1, 48). Solamente Lei ha avuto una nozione chiara e sublime del suo nulla e della sua dipendenza completa dall’Altissimo. A partire da questo riconoscimento del proprio nulla, Dio si è inebriato d’amore per Lei, scegliendoLa e costituendoLa un paradiso per Sé, superiore a quello degli stessi Angeli. A questi era stato dato il Cielo Empireo, a noi il Paradiso Terrestre, ma per la Santissima Trinità è stata scelta Colei che ha detto “ecco la serva del Signore” (Lc 1, 38): Maria Santissima! Un bellissimo commento a questo riguardo ci ha lasciato San Luigi Maria Grignion de Montfort: “la divina Maria, dirò con i santi, è il paradiso terrestre del nuovo Adamo, dove Egli si è incarnato, per opera dello Spirito Santo, per realizzarvi meraviglie incomprensibili; è l’eccelso e divino mondo di Dio, che racchiude bellezze e tesori ineffabili; la magnificenza dell’Altissimo, dove Egli ha nascosto, come nel suo grembo, il suo unico Figlio e, in Lui, tutto ciò che c’è di più eccellente e prezioso”.19
III- Mai perdere la fede davanti alle difficoltà
Il Vangelo di questa domenica ci insegna il ruolo fondamentale della fede, nella gioiosa dipendenza da Dio. Le delusioni e le difficoltà umane, impreviste nel corso della vita, sono permesse dalla Provvidenza Divina per segnare in noi il momento culminante nel quale Dio o il demonio diventa vincitore nel campo di battaglia interiore dell’anima. Assistendo al crollo dei sogni costruiti sulle fragili fondamenta del nostro istinto di socievolezza sregolato, la fede può diminuire e noi possiamo diventare egoisti, cercando la sicurezza nei beni materiali. Ciò nonostante, se, al contrario, manteniamo la fiducia – speranza fortificata dalla fede – raccomandata da Nostro Signore in questo passo del Vangelo, avremo la possibilità di una vita felice su questa Terra, quantunque sempre accompagnati dalla croce, in qualsiasi circostanza, a causa del nostro stato di prova. Solo questa fede salda e senza difetto ci fa vivere, di fatto, in una sottomissione totale a Dio, rendendoci capaci di affrontare le sofferenze con coraggio.
Crescere nella fede significa, molte volte, presenziare o subire un disastro e mantenere, in fondo al cuore, una fiducia incrollabile. Una scena più struggente non potrebbe affrontare chi, giunto al Calvario, si imbattesse in Gesù crocifisso tra due ladroni! D’altra parte, con il cuore straziato di fronte a tale dramma, troverebbe consolazione se sapesse pensare alle meraviglie che da quella Croce sarebbero sorte, proprio come la Madonna che stava lì, in piedi, senza scoraggiarsi. Siamo fiduciosi, poiché i disastri sono permessi da Dio per ottenere qualche bene maggiore. La fede è l’unguento per tutti i nostri dolori, è il coraggio e la gioia nelle sofferenze di questo grande deserto – l’esistenza nell’esilio terreno –, fino a che raggiungeremo un giorno la felicità eterna, nella gloria celeste.
La fede conquisterà il mondo!
Viviamo in un’epoca di ateismo in cui la fede sta sempre più svanendo nel cuore delle persone. Il terribile orgoglio prevale di fronte a Dio, e il mondo non accetta né aderisce alle sue verità. Di fronte a tale umanità lontana dal proprio fine, il nostro anelito di cattolici è quello di vedere la Buona Novella del Vangelo conquistare tutta la Terra, in modo da produrre i più bei risultati in materia di santità. Teniamo ben presente quanto le condizioni del momento sono lungi da renderlo naturalmente possibile. Per questo, ci è richiesto uno dei maggiori atti di fede mai visti e richiesti fino ad oggi.
Se gli Apostoli – scelti direttamente da Nostro Signore – chiedevano un aumento della loro fede, come possiamo non chiederlo noi? Chiediamo, dunque, a Lui, una fede robustissima, supplicando: Signore, Tu sei Onnipotente e hai creato il dono della fede per infonderlo nelle anime; Tu hai la possibilità di creare questa virtù in grado infinito. Dacci, allora, la fede di cui tanto abbiamo bisogno! Vieni e concedici un fulgore di fede come mai è esistito nella Storia!
1) Cfr. TAPARELLI, SJ, Luis. Ensayo teórico de Derecho Natural.
2.ed. Madrid: San José, 1884, t.I, p.154-155.
2) ROYO MARÍN, OP, Antonio. La fe de la Iglesia. 4.ed.
Madrid: BAC, 1979, p.17.
3) Idem, p.16.
4) SANT’AGOSTINO. Enarratio in Psalmum LXXV, 8. In: Obras.
Madrid: BAC,1965, v.XX, p.992-993.
5) CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Conferenza. São Paulo, 29 mag.
1965.
6) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.129,
a.6, ad 3.
7) RAMÍREZ, OP, Santiago. La esencia de la esperanza cristiana.
Madrid: Punta Europa, 1960, p.120-121.
8) SANT’AGOSTINO. Sermo CXXV, n.11. In: Obras. 2.ed.
Madrid: BAC, 1965, v.X,p.531-532.
9) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., q.4, a.7.
10) ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología de la perfección
cristiana. 5.ed. Madrid: BAC, 1968, p.476.
11) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., q.5, a.4.
12) Cfr. ROYO MARÍN, La fe de la Iglesia, op. cit., p.79.
13) Cfr. LAGRANGE, OP, Marie-Joseph. Évangile selon Saint Luc.
4.ed. Paris: J. Gabalda, 1927, p.454.
14) Sebbene la traduzione liturgica usi in questo versetto
la parola “impiegato” – più avanti troveremo il termine
“servo” –, nell’originale greco risulta douloj, cioè schiavo
o servo.
15) Cfr. TUYA, OP, Manuel de; SALGUERO, OP, José.
Introducción a la Biblia. Madrid: BAC, 1967, v.II, p.347-354.
16) SANT’AMBROGIO. Tratado sobre el Evangelio de San Lucas.
L. VIII, n.31-32.In: Obras. Madrid: BAC, 1966, v.I, p.492.
17) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., I-II, q.114, a.1.
18) RITO DELLA MESSA. Preghiera Eucaristica: Prefazio dei
Santi, I. In: MESSALE ROMANO. Riformato a norma dei decreti
del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato dal Papa Paolo
VI. Città del Vatricano: L.E. Vaticana,1983, p.363.
19) SAN LUIGI MARIA GRIGNION DE MONTFORT. Traité de la vraie
dévotion à la Sainte Vierge, n.6. In: OEuvres complètes.
Paris: Du Seuil, 1966, p.490.
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