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XXIII Domenica del Tempo ordinario – Anno – C.


Ascensione della Mongolfiera in Aranjuez.

Vangelo


In quel tempo, 25 siccome molta gente andava con Lui, Egli Si voltò e disse: 26 “Se uno viene a Me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27 Chi non porta la propria croce e non viene dietro di Me, non può essere mio discepolo. 28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30 ‘Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro!’ 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. 33 Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo!” (Lc 14, 25-33).


Volare senza lacci!


Sono chiare le condizioni per seguire Gesù. Dipende da noi liberarci dai lacci che ci legano alla Terra.


I – Lacci e zavorre nella vita spirituale


Nel giugno del 1783, i fratelli Joseph-Michel e JacquesÉtienne Montgolfier, figli di un fabbricante di carta di Lione, riuscirono a far volare, davanti agli increduli occhi dei loro conterranei, un grande pallone fatto di lino, di 32 metri di circonferenza. Piena di aria calda ottenuta dalla combustione di paglia secca, la macchinosa invenzione si elevò varie centinaia di metri sopra il suolo e percorse in dieci minuti una distanza da due a tre chilometri. Tre mesi dopo, ripeterono con successo la loro esperienza nel Parco di Versailles, davanti a Luigi XVI, Maria Antonietta e tutta la corte di Francia.


Da allora, la tecnica di fabbricazione degli aerostati fu molto perfezionata, ma il principio del loro funzionamento – basato su una delle più elementari leggi della Fisica – continua inalterato: essendo più leggera, l’aria calda tende a salire. Mentre si riempie d’aria, il pallone resta attaccato al suolo da ormeggi. Ad un certo momento, essi vengono sciolti e il marchingegno inizia la sua ascensione, divenendo allora necessario cominciare a liberare le zavorre gradualmente affinché esso possa raggiungere un’altezza maggiore.


Questa è una bella immagine dell’elevazione delle anime a Dio. “Riscaldate” dalla pratica delle virtù, specialmente della carità, esse iniziano l’ascesa spirituale e cominciano a “volare”. Costuma esserci, tuttavia, come conseguenza del peccato, lacci che le legano alla Terra e zavorre che rendono difficile il loro itinerario verso la perfezione. È imperativo, pertanto, tagliarli e sbarazzarsene, affinché lo spirito umano possa elevarsi al trascendente e all’eterno. A somiglianza del nostro corpo, le anime soffrono dei dannosi effetti di una specie di legge della gravità spirituale per cui ci sentiamo attratti verso il più basso, il più triviale, ciò che esige da noi meno sforzo.


Anche per le persone consacrate esistono lacci e zavorre, a volte più difficili da sciogliere rispetto a quelli dei semplici fedeli. Se i religiosi non corrispondono all’invito della grazia a vivere su un piano più elevato, potranno sentire una specie di vertigine per cui tenderanno ad appigliarsi con speciale veemenza a ciò che è terreno.


Per aiutare a vincere questi ostacoli nelle istituzioni religiose, lo Spirito Santo ha suscitato, nel corso dei tempi, le più diverse forme di spiritualità che intensificano il distacco dai beni passeggeri. Alcune ci provocano stupore per la loro radicalità. Per esempio, l’Ordine dei Chierici Regolari Teatini vive di elemosine, come tanti altri, ma i suoi membri non possono chiederle: devono aspettare che vengano loro offerte spontaneamente!1


In previsione di questa nostra cattiva tendenza, Cristo ci insegna che sono indispensabili la rinuncia e l’abnegazione, per essere veri discepoli suoi. Ecco la lezione della Liturgia di questa domenica.


II – Odiare il padre e la madre?


In quel tempo, 25 siccome molta gente andava con Lui, Egli Si voltò e disse:


San Francesco d’Assisi rinuncia alle ricchezze terrene.

All’inizio della sua predicazione, soltanto alcuni seguivano il Divino Maestro, ma in poco tempo, il numero dei suoi seguaci andò crescendo fino a formare un pubblico considerevole. In questo tempo del Vangelo di San Luca, quando Egli si incammina per l’ultima volta verso Gerusalemme, si può già dire che “molta gente andava con Lui”.


Tuttavia, non tutti potremmo chiamarli propriamente suoi discepoli. Come sottolinea il Cardinale Gomá, quelle moltitudini seguivano Nostro Signore “mosse forse da pensieri troppo umani, presagendo chissà la gloria temporale del Regno Messianico”.2


Fu questo il motivo che portò Gesù a rivolgerSi a costoro al fine di insegnare loro – e anche a noi – il vero significato del Regno dei Cieli e le condizioni per ottenerlo.


Gesù deve essere amato con un amore perfettissimo


26 “Se uno viene a Me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.


Sebbene alcune versioni della Scrittura interpretino in questo passo il senso del verbo greco μισεω come “distaccarsi”, la Vulgata preferisce tradurre il termine μισεῖ con odit (odia). Di qui la formulazione classica di questo versetto: “Se uno viene a Me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.3


Ora, come spiegare, alla luce dei Comandamenti della Legge di Dio, questa esigenza di odiare i parenti più prossimi e persino la propria vita? Trarre da ciò tutte le conseguenze alle quali una considerazione superficiale può indurre, non porterebbe questo versetto al parricidio, al fratricidio e perfino al suicidio? Non sarà stata, allora, incorretta, in quanto iperbolica, la traduzione di San Gerolamo?


Non sembra. Al contrario, l’uso del verbo odiare sottolinea con enfasi didattica, in questo contesto, il senso più profondo delle parole del Maestro: la necessità di amare Dio sopra tutto, pertanto, di distaccarci radicalmente addirittura da quanto ci sia per noi di più caro, se questo rappresenta un ostacolo per seguire Cristo. Infatti Gesù è degno di essere amato con un amore perfettissimo, e mai arriverà ad essere suo vero discepolo chi non è disposto a portare, a causa di Lui, fino agli ultimi estremi il distacco: “Chi ama suo padre o sua madre più di Me, non è degno di Me” (Mt 10, 37).


San Tommaso nella Somma Teologica spiega che tocca alla virtù della pietà “prestare ai genitori culto e servizi, ma dentro le dovute misure. Ora, non esiste debita misura quando si tende a prestare all’uomo un culto maggiore di quello che si presta a Dio. […] Se, di conseguenza, il culto dovuto ai genitori venisse ad allontanarci dal culto di Dio, non sarebbe più pietà filiale insistere in un culto che è contro Dio”.4


Deve esser interpretato nello stesso senso l’invito a staccarci “perfino dalla propria vita”, come giustamente indicano Balz e Schneider: “La duplice esigenza di Gesù – necessità di odiare i genitori e perfino se stessi, a causa di Lui (cfr. Lc 14, 26), e di non amare i genitori più che Lui (cfr. Mt 10, 37) – ha in realtà questo significato: per seguire Gesù, è necessario porre tutto da parte”.5


I nemici saranno gli stessi familiari


Ora, come possono padre e madre, fratello e sorella rappresentare ostacoli alla nostra salvezza?


Per meglio rispondere a questa domanda, è utile ricordare un altro passo del Vangelo, correlato a quello che adesso commentiamo: “Non crediate che Io sia venuto a portare pace sulla Terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 34-36).


Su questi versetti di San Matteo – ancor più incisivi, per un certo verso, di quelli di San Luca –, commenta Romano Guardini: “Il messaggio di Gesù è un messaggio di salvezza. Annuncia l’amore del Padre e l’avvento del Regno. Chiama gli uomini alla pace e alla concordia, nella volontà santa. Tuttavia, la sua parola non comincia col produrre l’unione, ma la divisione. Quanto più un uomo diventa profondamente cristiano, tanto più la sua vita si distingue dalla vita degli altri che non vogliono diventare cristiani, o nella misura in cui si rifiutano di esserlo. […] Ecco perché può così verificarsi una scissione tra padre e figlio, amico e amico, o tra gli abitanti di una stessa casa”.6


Vero senso del verbo odiare


Beata Zelie (Madre di Santa Teresina del Bambin Gesù)

Ora, subito dopo, Guardini aggiunge, con molto acume, che l’esigenza di odiare i parenti quando essi ci allontanano da Dio “è antinaturale, e provoca la tentazione di conservare i parenti naturali e di abbandonare Gesù”.7


È volendo render chiara la necessità che l’uomo ha di far violenza contro se stesso per esser vero discepolo di Cristo, che la Vulgata, San Tommaso, San Gregorio Magno e molti altri commentatori ricorrono ad un termine così radicale quanto il verbo odiare: “Gregorio interpreta questa parola del Signore nel senso che ‘dobbiamo odiare i nostri genitori e da loro fuggire, ignorandoli, quando li abbiamo come avversari nel cammino di Dio’. Se, infatti, i nostri genitori ci inducono al peccato e ci allontanano dal culto divino, per quel che concerne questo punto specifico dobbiamo odiarli e abbandonarli”.8


Pertanto, è naturale, legittimo e persino un dovere l’amore a sorelle e fratelli, figlie e figli, padre o madre; ma dobbiamo ripudiarlo con ogni energia, se esso ci impedisce di seguire Cristo. Ancora una volta, è San Tommaso che chiarisce: “Non ci viene ordinato di odiare il nostro prossimo perché è il nostro prossimo, ma solamente coloro che ci impediscono di unirci a Dio. In questo essi non sono il nostro prossimo, ma nemici, secondo il libro di Michea: ‘I nemici dell’uomo sono quelli di casa sua’ (Mi 7, 6)”.9


Più avanti aggiunge: “Pertanto, si deve dire che, secondo il comandamento di Dio, i genitori devono essere onorati in quanto sono uniti a noi per la natura e per affinità, come mostra il libro dell’Esodo. Ma dobbiamo odiarli se costituiscono un ostacolo nella nostra ascensione alla perfezione della giustizia divina”.10



Beato Louis Martin (Padre di Santa Teresina del Bambin Gesù)

Resta così posta la questione nel suo vero equilibrio. La Santa Chiesa può insegnare con tutta l’autorità questa dottrina, poiché è stata lei che ha evangelizzato i popoli pagani ed ha consolidato nel mondo i principi basilari della famiglia monogamica e indissolubile, con la sua predicazione e con l’amministrazione del Sacramento del Matrimonio, istituito dal Signore Gesù. Con questo, ha posto in una situazione degna nella società la moglie e i figli, facendo cessare abusi vigenti nel mondo antico, come il “diritto” del padre di uccidere i figli o del marito di ripudiare la sposa ma, allo stesso tempo, essa enfatizza il fatto che tutto, persino la famiglia, è subordinato al servizio e alla gloria di Dio.


Ancora a proposito del verbo odiare, padre Duquesne presenta un importante chiarimento: “Il termine odiare non significa che dobbiamo fare o augurar loro il male; ma esso sottolinea l’ardore, il coraggio, la forza con la quale dobbiamo resistere loro, nel caso si oppongano alla nostra salvezza, ci trascinino verso il male, ci dissuadano dall’assumere lo stato al quale Dio ci chiama o vogliano ingaggiarci in quello a cui Dio non ci chiama; nel caso ci impediscano di abbracciare la vera Fede e si sforzino di trattenerci o di gettarci nell’errore”.11



Santa Teresina del Bambin Gesù – otto anni di età

In senso contrario, possiamo considerare numerosi esempi che ci mostrano come siano inestimabili, e sotto un certo profilo insuperabili, lo stimolo e l’appoggio della famiglia affinché i suoi membri si santifichino: Santa Monica, le cui lacrime e preghiere hanno ottenuto la conversione del figlio; San Basilio, il Vecchio e Santa Emilia, genitori di San Basilio, San Gregorio di Nissa, Santa Macrina e San Pietro di Sebaste; o i Beati Luigi e Zelia Martin, genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino.


Il premio verrà nella gloria eterna


27 “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di Me, non può essere mio discepolo”.


Queste parole di Gesù scartano in un sol colpo tutte le speranze trionfaliste che la maggior parte dei Giudei aveva a proposito del Regno Messianico. Infatti, in tutta la sua predicazione, il Signore non aveva mai offerto la pienezza della felicità in questa vita, ma piuttosto la gloria eterna, la cui via passa per l’abnegazione e per il sacrificio. Per crucem ad lucem – è per la croce che si giunge alla luce, recita la nota massima latina.


L’Apostolo illustra bene questa necessità di sacrificio e mortificazione, ricorrendo ad un esempio particolarmente vivo per i suoi seguaci a Corinto: “Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (I Cor 9, 25-27).


Sempre su questo versetto del Vangelo, è interessante ricordare una pietosa considerazione di padre Duquesne: “Compariamo la nostra croce con quella di Gesù Cristo e quelle dei martiri, e vergogniamoci della nostra codardia!”.12 Non vale, pertanto, portarla di malavoglia, lamentandosi del suo peso o manifestando amarezza per le sofferenze che essa ci porta. Chi procede così, trascina la croce, non la carica; di conseguenza, non può esser considerato discepolo del Maestro. Seguire il Signore non significa soltanto andare fisicamente dietro di Lui, come facevano molte persone in quella moltitudine, ma “imitare i suoi esempi, praticare le sue virtù”, 13 sottolinea lo stesso padre Duquesne.


III – Lucidità e prudenza


Insegnare per mezzo di parabole è una costante della divina didattica. Così il Signore ricorre ora a due di queste, per rendere vivo agli occhi di quella moltitudine quanto il seguirLo non esiga solo sforzo e abnegazione, ma anche programmazione lucida e scrupolosa esecuzione, cioè, “prudenza e risolutezza nel calcolare lo sforzo che questo ci costerà”.14


Come non poteva non essere, le due immagini furono scelte con divina sapienza, in modo da illustrare alla perfezione l’insegnamento dei versetti precedenti. A questo proposito, commenta Maldonado: “Cristo ha proposto le parabole della torre e della guerra, preferendole ad altri temi, perché si trattava di imprese molto difficili e onerose innalzare torri e intraprendere guerre, le quali richiedevano grande e diligente preparazione”.15


I calcoli per costruire una torre o pianificare una guerra


28 “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30 ‘Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro!’”


Come ha ben osservato Maldonado, “calcolare la spesa” significa qui prepararsi con cura, anche fermandosi ad ascoltare prudenti consigli. È quanto ogni uomo deve fare negli importanti crocevia della vita: misurare le difficoltà prima di lanciarsi per una o per un’altra via, sempre in accordo con la ragione, mai guidati soltanto dai sentimenti o dagli impulsi. Più importante ancora, è necessario decidere e agire tenendo presente, soprattutto, la vita eterna, e non solo gli interessi terreni, passeggeri per definizione.


31 “Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?”


Le guerre tra piccoli Stati erano comuni nell’Antichità. Nostro Signore presentava, quindi, in questa parabola una realtà ben nota a tutti coloro che Lo ascoltavano.


Ora, nella battaglia per ottenere il Regno dei Cieli, l’uomo entra in condizioni molto sfavorevoli. Data la natura decaduta in conseguenza del peccato originale, ognuno ha nel suo intimo terribili nemici: “il castigo della carne, la legge del peccato che impera nelle nostre membra, e varie passioni”.16 A questi si aggiungono “i Principati e le Potestà, dominatori di questo mondo di tenebra, gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6, 12).


Mirando a render notoria questa sproporzione di forze, Sant’Agostino interpreta così il senso della parabola: “I diecimila uomini con i quali egli deve combattere il re che dispone di ventimila, rappresentano la semplicità del cristiano, che deve lottare contro la falsità del demonio, cioè, con i suoi inganni e fallacie”.17


Trattato di pace con il Supremo Sovrano


32 “Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace”.


Da parte sua, San Gregorio Magno dà di questa parabola un’interpretazione di carattere escatologico, secondo la quale il re che si approssima sarebbe Colui che verrà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti.18


Così, nella prospettiva dell’arrivo del Supremo Sovrano, a paragone del quale niente siamo e niente possiamo, ci toccherebbe soltanto inviare messaggeri a sollecitarGli la pace. Costoro sono i nostri Angeli Custodi, i nostri intercessori celesti e, soprattutto, la Madonna. Infatti, come chiede padre Duquesne, “chi siamo noi per presentarci davanti a Dio e avere l’audacia di negoziare la pace con Lui? Che cosa abbiamo noi da offrirGli”.19


Quanto alle condizioni della pace, esse sono state già enunciate nei primi versetti di questo Vangelo: si tratta di rinunciare a tutto ed abbracciare la Croce per seguire il Divino Redentore.


L’unico calcolo permesso al vero discepolo


33 “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo!”


In queste due parabole, il Signore rende evidente quanto sia necessario fare bene i calcoli prima di intraprendere un’impresa, assumersi una responsabilità o ingaggiare una battaglia terrena.


Gesù che porta la Croce, con la Madonna e San Domenico di Guzmán.

Ora, in questo versetto, secondo l’interpretazione di Sant’Agostino, sarebbe dichiarato il senso di entrambe, poiché, egli afferma, “il denaro per edificare la torre e la forza di diecimila uomini per affrontare i ventimila combattenti dell’altro re, non hanno altro significato che quello che ciascuno rinunci a tutto quanto possiede”.20


Aggiunge il santo Vescovo di Ippona: “Quanto anteriormente detto concorda con quello che si dice ora, perché nella rinuncia di ognuno a tutto quanto possiede è contenuto anche l’odio a suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli, le sue sorelle e persino alla sua stessa vita. Tutte queste cose sono proprie di ognuno, e costituiscono un ostacolo e impedimento ad ottenere, non il temporale e transitorio, ma quello che è comune a tutti e sussisterà sempre”.21


Esiste, insomma, soltanto una via per diventare veri discepoli di Gesù: rinunciare totalmente agli affetti disordinati e all’attaccamento ai beni terreni, evitando che essi agiscano da lacci nella nostra vita spirituale o da pesanti zavorre per la nostra anima. Senza staccarci in forma piena e completa da quanto ci separa da Cristo, non otterremo mai il Regno dei Cieli.


Importante è notare, inoltre, come fa il Cardinale Gomá, che non solo i chierici e religiosi devono esser discepoli di Gesù, ma anche tutti i battezzati: “Con gli esempi della torre e del re, il Signore non vuole dire che ognuno di noi sia libero di diventare o no suo discepolo, come l’uomo della torre era libero di gettare o no le fondamenta. Egli ha intenzione di insegnarci l’impossibilità di piacere a Dio tra le cose che distraggono l’anima e nelle quali ella corre il rischio di soccombere, per l’astuzia del demonio”.22


San Beda fa una distinzione tra il dovere delle anime chiamate allo stato di vita consacrata e l’obbligo di tutti i fedeli: “Vi è una differenza tra il rinunciare a tutte le cose e l’abbandonarle: compete ad un piccolo numero di perfetti abbandonarle, ossia, mettere da parte le cure del mondo e tocca a tutti i fedeli rinunciarvi, cioè, possedere le cose terrene in maniera tale che esse non li ancorino al mondo”.23


IV – Le affezioni disordinate ci rubano la pace dell’anima


Il Vangelo adesso commentato mostra come questo distacco radicale e completo è la pietra fondamentale della nostra vita interiore, sia nello stato laicale, sia nello stato clericale, sia nello stato consacrato. In questo senso, possiamo affermare che la Liturgia della 23ª Domenica del Tempo Ordinario è un invito al distacco: “Chi non porta la sua croce e non Mi segue, non può essere mio discepolo”. Questo non significa che dobbiamo essere flagellati, coronati di spine o inchiodati nella croce, come è stato il Signore Gesù. La croce che Egli ci chiede consiste principalmente nel vivere staccati da tutto quanto è terreno, proprio come un’aquila che vola senza lacci per contemplare meglio, nel cielo, il Sole.


Come tante volte verifichiamo nella vita, l’attaccamento disordinato genera afflizioni, insicurezze e timori che ci rubano la pace dell’anima. Pertanto, anche l’uomo non chiamato alla vita religiosa deve fare tutto con il cuore riposto nelle cose di Dio, anche quando si prende cura degli affari e dell’amministrazione dei suoi beni. Questo distacco è condizione per seguire da vicino il Signore Gesù. Agendo così, l’anima sperimenterà la vera felicità, preannunciatrice della gioia che avrà nel Cielo.

1) COSTITUZIONI DEI CHIERICI TEATINI, art.26: “Noi, chierici, 
dobbiamo vivere dell’Altare e del Vangelo, e di quanto ci 
offrano spontaneamente i fedeli, senza chiedere carità alcuna
ai secolari, né direttamente né per intermediazione di altri. 
Tutta la nostra speranza deve esser posta nella parola di 
Cristo Signore, che dice: ‘Cercate in primo luogo il Regno 
di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno 
date in aggiunta’”.

2) GOMÁ Y TOMÁS, Isidro. El Evangelio explicado. Año tercero 
de la vida pública de Jesús. Barcelona: 
Rafael Casulleras, 1930, v.III, p.283.

3) Le due traduzioni sono corrette, poiché il verbo greco 
μισεω, come il suo equivalente ebreo śānā’, 
abbraccia una gamma di significati che va dall’amare meno, 
detestare, fino ad odiare (cfr. BALZ, Horst; SCHNEIDER, 
Gerhard (Eds.). Diccionario exegético del Nuevo Testamento. 
2.ed. Salamanca: Sígueme, 2002, col.295).

4) SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.101, a.4.

5) BALZ; SCHNEIDER, op. cit., col.295.

6) GUARDINI, Romano. O Senhor. Lisboa: Agir, 1964, p.293.

7) Idem, ibidem.

8) SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., ad 1.

9) Idem, q.26, a.7, ad 1.

10) Idem, q.34, a.3, ad 1.

11) DUQUESNE. L’Évangile médité. Lyon-Paris: Perisse Frères, 
1849, v.III, p.104.

12) Idem, p.106.

13) Idem, ibidem.

14) GOMÁ Y TOMÁS, op. cit., p.282.

15) MALDONADO, SJ, Juan de. Comentarios a los cuatro 
Evangelios. Evangelios de San Marcos y San Lucas. 
Madrid: BAC, 1951, v.II, p.642.

16) SAN CIRILLO DI ALESSANDRIA. Explanatio in Lucæ Evangelium, 
105: MG 72, 796.

17) SANT’AGOSTINO. Quæstiones Evangeliorum, L.II, c.31: ML 35,
1343.

18) Cfr. SAN GREGORIO MAGNO. Homiliæ in Evangelia, L.II,
hom.17, n.6-7. In: Obras. Madrid: BAC, 1958, p.744-745.

19) DUQUESNE, op. cit., p.119.

20) SANT’AGOSTINO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO. Catena Aurea. 
In Lucam,c.XIV, v.28-33.

21) Idem, ibidem.

22) GOMÁ Y TOMÁS, op. cit., p.285.

23) SAN BEDA, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, Catena Aurea, 
op. cit.

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