top of page

V Domenica di Pasqua – Anno – C.

Il bacio di Giuda

Vangelo

31 Quand’egli fu uscito, Gesù disse: “Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. 32 Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 33a Figlioli, ancora per poco sono con voi. 34 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35 Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 31-33a.34-35).


Nella sofferenza, la radice della gloria


Sebbene costatiamo l’istintiva ripugnanza della nostra natura nei confronti di ogni sofferenza, è in essa che si trova la porta dell’autentica felicità, e nell’amore al prossimo il segno distintivo del cristiano.


I – L’armonia della natura umana in Paradiso


La nostra vita sulla Terra si può definire come una grande prova, poiché siamo venuti a questo mondo per affrontare un’esistenza macchiata dal peccato, piena di difficoltà, e solo se saremo fedeli alle grazie ricevute otterremo il premio dell’eterna beatitudine. La prova è posta dal Creatore nel cammino di tutti gli esseri intelligenti, e neppure gli Angeli sono stati chiamati alla visione beatifica senza esservi passati.1 Adamo ed Eva, i nostri progenitori, erano stati introdotti in Paradiso, in grazia, anche per esser messi alla prova e non sono stati fedeli. Rompendo l’obbedienza e mangiando il frutto proibito, sono stati espulsi dall’Eden e privati di molti dei privilegi concessi da Dio quando vivevano in stato di giustizia, tra i quali la scienza infusa, che dava la conoscenza dei segreti della natura, l’impassibilità, grazie alla qual non si ammalavano, e il magnifico dono d’integrità.


Il dono d’integrità


Questo dono specialissimo faceva sì che tutte le inclinazioni delle passioni e gli impulsi della natura fossero in armonia con la legge divina.2 La sensibilità e la volontà erano governate dalla ragione perfettamente equilibrata, e questa si sottometteva con docilità alle determinazioni di Dio. L’ordinamento dell’uomo prima del peccato potrebbe esser paragonato a un motore perfetto, senza nessuna vite allentata, o a un lavoro all’uncinetto molto ben fatto, senza nessun punto sciolto; in tutti i movimenti dell’anima e del corpo regnava il più completo equilibrio, senza alcuno sforzo. Con il dono dell’integrità non avremmo mai versato una lacrima, non avremmo mai avuto dolori o sofferenze di nessun tipo, e il dramma non si presenterebbe nelle nostre vite, poiché tutto sarebbe conforme all’ordine stabilito dal Creatore.



Adamo ed Eva espulsi dal Paradiso

Solo conoscendo da vicino Nostro Signore e la Madonna potremmo avere un’idea esatta di tale privilegio, visto che entrambi lo possedettero fin dal primo istante del concepimento, in quanto non passò per Essi nemmeno l’ombra della macchia del peccato. In Gesù troviamo questo dono al grado infinito, poiché in Lui tutte le azioni umane sono un riflesso delle divine, in conseguenza dell’unione indistruttibile tra le due nature. Questa grazia d’unione fa sì che Egli, proprio in quanto Uomo, sia intrinsecamente e assolutamente impeccabile, e che tutto il suo Corpo, fino al più piccolo dei suoi movimenti, sia santo in maniera infinita.3 Nel caso della Madonna, pura creatura umana divinizzata dalla grazia, riconosciamo questo dono perché non c’è in Lei nessun movimento disordinato.


Dov’è l’origine della necessità del dono d’integrità per l’uomo? Nel fatto che lui è un microcosmo, che ha nella sua natura elementi del regno minerale, vegetale, animale e spirituale, ai quali si aggiunge una partecipazione alla vita divina, con la grazia. Questi elementi portano con sé leggi contraddittorie che, a seguito del peccato, si scontrano dentro di noi. Per esempio, se da un lato l’elemento spirituale chiede una dedizione sempre maggiore agli impalpabili e al soprannaturale, la legge animale sfugge a questa tendenza, chiamando la nostra attenzione a ciò che è concreto e materiale. Mentre il Comandamento di Dio ordina di non desiderare le cose altrui, i nostri istinti ci inducono all’appropriazione di quello che ci piace, sebbene non ci appartenga. Gli esempi potrebbero esser moltiplicati all’infinito, poiché c’è una lotta costante tra le varie leggi che originano le difficoltà di questa vita e causano tormento, perplessità e dolore. Ecco la ragione per cui San Paolo afferma: “Acconsento nel mio intimo alla Legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7, 22-23). È il precetto di Dio a esigere dall’Apostolo un determinato comportamento, mentre l’istinto lo porta ad assumere atteggiamenti in senso opposto. Questo è il dramma dell’essere umano sulla faccia della Terra.


Per questo, voler programmare una vita senza sofferenza è impossibile, poiché non esiste nessuno libero da contrarietà. Nonostante ciò, si può compensare l’assenza di questo dono, facendo sì che, in qualche maniera, i suoi effetti si operino nelle nostre anime?


Ritornare alle vie del dono d’integrità


Il Prof. Plinio durante una riunione negli anni ’80

La soluzione si trova in un fattore riguardo al quale ci fu chi ha osato approssimarlo al genere dei sacramenti,4 forse un “ottavo sacramento” – aggiungendo in forma analogica un nuovo componente al definitivo settenario che la dottrina cattolica ci insegna –, e questo fattore è la sofferenza. C’è nell’anima umana, infatti, un’attitudine che il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira designava come “soffritiva”, che consiste in “una sorta di capacità e necessità di soffrire”.5 Come i nostri muscoli hanno bisogno di essere esercitati per non indebolirsi, così anche noi – una volta espulsi dal Paradiso e perso il dono d’integrità – dobbiamo passare per l’esercizio della sofferenza affinché questo equilibri la nostra natura disordinata. E quando la nostra facoltà di soffrire “non si esaurisce con la sofferenza effettiva, finisce per determinare una frustrazione maggiore che fa soffrire più della sofferenza. Se nella vita si accetta la sofferenza, si soffre meno. Una delle ragioni profonde degli squilibri moderni è che le persone non soffrono, perché finiscono per stabilire l’idea che è possibile condurre una vita senza sofferenza”.6 In una parola, è il dolore che fa dell’uomo una creatura felice in questa vita di stato di prova. Tale dottrina sembra molto difficile da concepire, poiché la nostra natura non può rifiutare la felicità ed è a ogni istante alla sua ricerca. Tuttavia, già i filosofi pagani intuirono, col semplice ricorso alla ragione e alla logica, il ruolo del dolore nella vita umana. “Ti ritengo un disgraziato se mai lo sei stato: hai trascorso la vita senza aver contrarietà; nessuno (neanche tu) conoscerà fino a dove arrivano le tue forze”,7 giunse ad affermare Seneca.


Dio, che ci ha creati avidi di trovare la felicità, ha anche posto nella nostra anima la capacità di soffrire. Quale la ragione di questo divino modo di agire? È quello che ci insegna con grande profondità la Liturgia della 5ª Domenica di Pasqua.


II – La vera gloria nasce soltanto dal dolore


Il Vangelo presenta un passo del discorso di commiato di Nostro Signore nell’Ultima Cena. In questo momento supremo, in cui Egli istituiva per i secoli futuri il Sacramento dell’Eucaristia – il più prezioso di tutti i Sacramenti, per quanto riguarda la sostanza –, aveva davanti a Sé un vicino di tavola di pessime intenzioni. Dopo che Giuda ebbe ricevuto il pezzo di pane bagnato, la morte entrò in lui, poiché, sebbene già fosse in peccato mortale per aver tramato la consegna del Divino Maestro, diventò preda di un demonio animato da grande furia, il quale non sopportava più l’umiliazione inflitta agli inferi da un Uomo che operava così grandi miracoli e aveva tanto potere. Lo spirito delle tenebre, da molto prima, aveva costatato quanto il suo imperio periclitasse ormai fuori controllo.8


31 Quand’egli fu uscito, Gesù disse: “Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. 32 Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”.


A prima vista, il versetto sembra incomprensibile. Qual è il momento, l’ora, in cui Nostro Signore dice che è glorificato? È quando Giuda abbandona in forma definitiva il convivio del Collegio Apostolico, al fine di consegnare il Salvatore ai poteri di questo mondo, affinché fosse processato e ucciso. Gesù, nella sua natura divina, aveva piena conoscenza di tutti i dolori per i quali sarebbe passato, al punto da sudare Sangue nell’Orto degli Ulivi. Di fronte alla prospettiva del tradimento, tuttavia, rimase “turbato nel suo spirito” (Gv 13, 21) poiché, pur avendo nella sua personalità divina la scienza di quell’istante, fin da tutta l’eternità, per quanto riguarda i meri sentimenti umani ancora non aveva sofferto l’esperienza della slealtà, esperienza che dilacerò il suo istinto di socievolezza. Inoltre, un altro Apostolo avrebbe dovuto rinnegarLo e gli altri sarebbero fuggiti; per questo Egli dice: “Dove vado io voi non potete venire” (Gv 13, 33). La scena è pungente, poiché, essendo la sua natura umana perfetta, questa infedeltà Gli costò molto più di quanto sarebbe costata a uno qualsiasi di noi.


“L’anima così delicata e ponderata di Gesù dovette soffrire molteplici incomprensioni, preconcetti e idee ambiziose dei suoi Apostoli. […] Un dolore più lancinante era riservato al Cuore di Gesù: uno dei Dodici, che Egli aveva scelto con tanto zelo, seguito con tanta dedizione, a cui aveva dato anche una missione di fiducia, avrebbe dovuto tradirLo”.9 Cristo ricevette quell’ingratitudine con equilibrio perfetto, con uno stato di spirito pienamente rassegnato. Tuttavia, in quanto soffriva, ricevette anche la consolazione, perché sapeva che era attraverso questa accettazione che sarebbe iniziata la sua gloria.


Il Padre voleva la maggior gloria per il Figlio


Preghiera nell’Orto degli Ulivi

A partire dal momento in cui Nostro Signore – Seconda Persona della Santissima Trinità e, allo stesso tempo, Uomo perfettissimo con l’anima nella visione beatifica, dotato di scienza infusa e di conoscenza sperimentale – diede il suo pieno consenso alla Passione, questa gloria si realizzò. La sua esaltazione consistette nell’esser catturato, passare per tutti i tormenti della condanna, salire al Calvario, esser sollevato sulla Croce e lì versare tutto il Sangue, fino alla trafittura del suo Cuore. Quando il Verbo eterno Si incarnò, lo fece invertendo una legge da Lui istituita, poiché la sua anima era stata creata nella visione beatifica e, malgrado ciò, assunse un corpo sofferente, quando avrebbe dovuto esser glorioso.10 Egli rifiutò tali prerogative perché desiderava un corpo simile al nostro, soltanto non macchiato dal peccato, per poter patire, darci l’esempio e, soprattutto, perché lo voleva il Padre, affinché la gloria eterna di Lui come uomo fosse la maggiore possibile. La sofferenza ben accettata, amata e assunta Gli ottenne il trionfo, dimostrando che il compimento dei disegni del Padre non esigeva la magnificenza del corpo glorioso, lo splendore di un potere terreno o un’esaltazione da parte degli uomini, ma soltanto la conformità con il dolore.


Inoltre, Nostro Signore era consapevole che la fine non era la morte, ma la Resurrezione e l’Ascensione al Cielo, dove avrebbe ricevuto la definitiva glorificazione e il riconoscimento eterno del Padre, dei beati e degli Angeli, per aver compiuto la sua missione redentrice. Reciprocamente, anche il Padre sarebbe stato glorificato, perché Egli e il Figlio sono uno. Questa era un’unione sostanziale che avrebbe permesso, con l’accettazione della sofferenza così come essa si presentava, che Gesù magnificasse Colui che Lo aveva inviato.


Anche la nostra gloria deve essere nella sofferenza


Gesù crocifisso

Un’analisi più profonda dei patimenti di Cristo indica che anche la nostra gloria è ottenuta con la sofferenza. Quante volte la grazia ci ispira a percorrere una determinata via, che cominciamo a percorrere con entusiasmo, nella quale, intanto, sorgono difficoltà. Di fronte alla sofferenza non dobbiamo mai scoraggiarci. Al contrario, quando la croce si presenta, spetta a noi imitare il Signore Gesù: inginocchiamoci, baciando lo strumento della nostra amarezza e mettendolo sulle spalle con determinazione, certi che così inizia il cammino della nostra gloria. In questo senso insegna con saggezza San Francesco di Sales: “Quanto felici sono le anime che […] bevono coraggiosamente il calice delle sofferenze con Nostro Signore, che si mortificano portando la loro croce, e che soffrono e ricevono dalla sua divina mano ogni sorta di avvenimenti, con sottomissione e amore, conforme al suo beneplacito”.11 Lo stesso Dottore della Chiesa ancora commenta: “La sofferenza dei mali è la più degna offerta che possiamo fare a Colui che ci ha salvato soffrendo”.12


I drammi che dobbiamo affrontare sono indispensabili per la conquista dell’eternità felice. Accettando una sofferenza con completa rassegnazione, amore e pietà, introduciamo nell’anima la pace, poiché facciamo tacere l’egoismo e manifestiamo, non solo con parole, ma anche con atti, il desiderio di andare in Cielo, una volta che “la felicità consiste nel soffrire con peso e misura, avendo presente un determinato fine”.13 In questo modo, quando la tribolazione si abbatte su di noi, non dobbiamo mai mormorare contro Dio per il fatto di averla permessa; dobbiamo seguire l’esempio di Gesù, che ha esclamato: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42). Pieni di contentezza, ci conformiamo alla volontà di Dio, certi che tutto quello che ci succede miri al bene delle nostre anime, poiché Egli non può volere per noi il male.


non può volere per noi il male. Consideriamo con gioia che siamo su questa Terra soltanto di passaggio, poiché, se vi rimanessimo per sempre, i tormenti varierebbero e si succederebbero indefinitamente. Pertanto, per coloro che affrontano bene la prova ad imitazione di Nostro Signore, la morte significa che è giunto il momento di riposare. Per questo la Chiesa nella Liturgia dei defunti canta: “requiescant in pace – riposino in pace”.

Non è che questo l’insegnamento di San Barnaba e San Paolo ai fedeli di Antiochia, contemplato nella prima lettura di questa Liturgia: “ È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14, 22). D’altra parte, l’assenza della sofferenza significa la perdita di una preziosa opportunità per confermarci quanto siamo transitori e dipendiamo da Dio, visto che esistiamo solo perché Egli ci sostenta nell’essere, a ogni istante. Di questa dipendenza ci persuadiamo solo col dolore, poiché esso mostra la nostra piccolezza e ci porta a riconoscere che abbiamo bisogno di un Bene infinito, non esistente in noi.


III – Una pratica antica sotto una nuova forma


Senza dubbio, affinché il dolore ben accetto dia i suoi frutti, Gesù ci offre un mezzo sicuro: un nuovo comandamento per guidare la condotta di tutti quelli che si considerano suoi discepoli.


33a “Figlioli, ancora per poco sono con voi”.


Il Maestro era consapevole, com’è stato ricordato, che l’ora della dipartita ormai era prossima e, pur resuscitando, li avrebbe lasciati dopo l’Ascensione al Cielo. Così, prima dell’inizio dei suoi supplizi, desiderava trasmettere le raccomandazioni più importanti, creando le condizioni affinché gli Apostoli si rendessero conto dell’imminenza della Passione e fissassero l’essenza della sua divina dottrina.


34 “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.


Sorprende che nella prima frase di questo versetto Nostro Signore Si riferisca all’amore degli uni verso gli altri come ad un comandamento nuovo. Sappiamo che dall’inizio dell’umanità l’amore era già praticato e tutti si amavano in qualche maniera. Dov’è la novità? Precisamente nella forma che ci è indicata, poiché questo amore non è come prima. Questa novità è l’esempio dato da Lui, come insegna San Giovanni Crisostomo: “Come mai ha chiamato ‘nuovo’ questo comandamento, se già si trova nell’Antico Testamento? Egli lo ha reso nuovo per il modo in cui si sarebbero amati. Per questo fine, ha aggiunto: ‘come Io vi ho amato’. […] Non ha menzionato i miracoli che avrebbero realizzato e li ha identificati [i discepoli] per la loro carità. Perché ha fatto questo? Perché questa virtù è il segno distintivo degli uomini santi e la base di ogni virtù. Per mezzo di questa siamo tutti salvi”.14 Infatti, fino ad allora l’amore si plasmava su modelli umani, corrispondendo alla ricompensa di un beneficio ricevuto o a un’iniziativa che avrebbe portato come conseguenza l’aiuto desiderato. C’era sempre un interesse di fondo – o un vantaggio, per lo meno – nell’amore per il prossimo come era concepito nelle società dell’Antico Testamento. Dunque, Gesù ci insegna che non è questo l’amore che Egli ha per noi.


In quanto Dio, Egli vuol bene a ognuno con amore perfetto, eterno e assoluto; così come a partire dalla sua umanità ci ama come fratelli; l’origine di questa affezione è la sua divinità. L’amore di Dio per le sue creature è misterioso e ha le sue peculiarità, poiché, come Creatore, Egli è l’unico che non può amare quello che ha fatto se non per amore di Se stesso, visto che, creando, ha lasciato il suo segno in tutti gli esseri,15 come leggiamo nel Libro della Sapienza: “Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita” (Sap 11, 24-26). Intanto, trattandosi degli esseri razionali, Dio non ha posto in loro una traccia soltanto, ma li ha fatti a sua immagine.16 Possiamo meglio comprenderlo, in qualche misura, attraverso un esempio. La macchina fotografica gode di un’immensa accettazione nella nostra società, perché con essa si può conservare il ricordo di qualche momento della vita che vorremmo rivivere. Ora, la fotografia è soltanto una riproduzione inanimata degli avvenimenti, e non smette di esser vero che essa trattiene qualcosa di ciò che succede. Noi siamo “fotografie”, nelle quali le Tre Persone della Santissima Trinità Si compiacciono nel riconoscere la loro immagine e nell’amare Se stesse riflesse, contemplando in atto il piano idealizzato da tutta l’eternità per ognuno di noi.


Questo punto di partenza, veramente sublime, apre nuove prospettive per il convivio umano, che viene allora regolato dalla ricerca reciproca, negli altri, dei riflessi della bontà che esiste in Dio in un grado infinito. Il nostro prossimo deve esser visto da noi come uno specchio della Santissima Trinità, un capolavoro o una pietra preziosa folgorante, di incalcolabile valore, lavorata dal potere divino. Da qui nasce l’autentica consonanza, che è la scintilla prima dell’amore tra le anime chiamate a unirsi di fronte a un ideale, verso cui guardano in armonia, come ha notato con sottigliezza Saint-Exupéry definendo la superiore forma di unione sorta quando “uomini dello stesso gruppo sperimentano lo stesso desiderio di vincere”.17 Se tra persone che amano Dio, si verifica una convergenza che ha la sua origine in questo santo idealismo, viene confermata la pratica del nuovo comandamento.


Questo punto di partenza, veramente sublime, apre nuove prospettive per il convivio umano, che viene allora regolato dalla ricerca reciproca, negli altri, dei riflessi della bontà che esiste in Dio in un grado infinito. Il nostro prossimo deve esser visto da noi come uno specchio della Santissima Trinità, un capolavoro o una pietra preziosa folgorante, di incalcolabile valore, lavorata dal potere divino. Da qui nasce l’autentica consonanza, che è la scintilla prima dell’amore tra le anime chiamate a unirsi di fronte a un ideale, verso cui guardano in armonia, come ha notato con sottigliezza Saint-Exupéry definendo la superiore forma di unione sorta quando “uomini dello stesso gruppo sperimentano lo stesso desiderio di vincere”.17 Se tra persone che amano Dio, si verifica una convergenza che ha la sua origine in questo santo idealismo, viene confermata la pratica del nuovo comandamento.


Non dimentichiamoci, però, che il vero amore degli uni verso gli altri deve esser gerarchizzato, visto che Dio ha posto i suoi riflessi nelle anime in forma diseguale, dando a ciascuna un aspetto unico, con una varietà che manifesta l’incomparabile ricchezza del Creatore.


Amore manifestato nell’impegno di santificare gli altri


L’estensione dell’amore divino è incommensurabile, poiché Dio è disposto a fare per noi tutto quanto è necessario, al punto da aver offerto la propria vita passando per la crocifissione, il peggior supplizio del suo tempo. Egli Si è immolato per tutti e lo avrebbe fatto anche fosse stato per un uomo solo. Per questa ragione anche il nostro amore per gli altri deve esser portato fino alle ultime conseguenze, ambendo per loro quello che Dio vuole per ognuno di noi: la santità. Desiderare che il prossimo esca dalla considerazione egoista, pragmatica e interessata del mondo e si diriga alla Gerusalemme Celeste è la più perfetta manifestazione d’amore che possiamo dargli. Dobbiamo impegnare, per questo, tutti i mezzi a nostra disposizione, sopportando le sue debolezze, correggendolo con compassione, dando buoni esempi e sacrificando i nostri gusti e preferenze personali, se con questo lo aiutiamo nella pratica della virtù, sapendo anche che questi piccoli atti rappresentano pochissimo rispetto a quello che ci è riservato varcando le soglie dell’eternità, per i meriti infiniti del Divino Modello. Meraviglioso comandamento che, essendo praticato, ordina l’anima ed elimina affezioni, capricci e difficoltà del rapporto umano. In questa maniera, tutte le miserie svaniscono, rimanendo soltanto un amore soprannaturale, che è la tenerezza di Dio per le creature e delle creature tra loro.


È opportuno anche applicare questo insegnamento su un piano individuale, a ognuno di noi. Se questo deve essere il nostro amore verso gli altri, ricordiamoci che quando la pratica della virtù dell’umiltà è mal concepita, c’è la tendenza di guardare alle nostre proprie insufficienze per autodistruggerci, andando contro l’amore di Dio. Una volta che siamo stati creati, possiamo affermare con piena certezza che esiste in noi un riflesso divino che deve esser oggetto del nostro amor verso noi stessi, parallelo all’amore che Egli ha per noi. Quando facciamo qualcosa di buono e Lui ci premia, non sta esaltando il nostro sforzo, ma i suoi propri doni,18 e, pertanto, glorifica Se stesso. Se sono i suoi doni che riconosciamo in noi, ci tocca amarli per praticare il nuovo comandamento con ogni integrità.


Il segno distintivo dei veri cristiani


35 “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.


In quest’ultimo versetto Nostro Signore fa un passo in avanti e dichiara che la forma d’amore insegnata da Lui è il fattore distintivo di chi realmente Lo segue. Le persone estranee al convivio dei cristiani, vedendo un amore così autentico, si rendono conto che lì è presente Dio stesso. E sebbene Egli sia andato in Cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa, poiché ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Il fatto di vivere sotto l’influsso dell’amore soprannaturale di cui Egli ci ha dato l’esempio è un modo di prolungare su questa Terra la sua presenza, orientando, proteggendo e istruendo con disinteresse quelli che pure Lo amano, senza nessun sentimentalismo, romanticismo o egoismo, ma con un amore così puro da causare stupore negli uomini e anche negli stessi Angeli, al punto che questi ultimi possono trovare sulla faccia della Terra uno specchio limpido del convivio tra gli eletti nella visione beatifica.


IV – Sofferenza e amore: cause del premio finale


Di fronte al panorama svelato dal Vangelo di questa 5ª Domenica di Pasqua, non possiamo non tener presente il fine al quale ci conduce la nozione soprannaturale della sofferenza e dell’amore al prossimo portato fino all’imitazione di quello che Nostro Signore ha manifestato per noi. Tal fine è indicato con molta chiarezza nella seconda lettura, tratta dall’Apocalisse: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (21, 3-4).



Santa Teresina a letto, sotto le arcate del chiostro del Carmelo di Lisieux, circa un mese prima di morire.

San Giovanni indica, profeticamente, il luogo destinato a tutti coloro che seguiranno le raccomandazioni fatte dal Redentore, dove non esiste più il dolore e la gioia è piena nella visione diretta di Dio. Di fronte all’eternità felice ogni sofferenza di questa Terra sarà nulla, come ha scritto Santa Teresina: “se penso che da una sofferenza sopportata con gioia ameremo meglio Dio per tutta l’eternità!”.19 Sì, neppure ci ricorderemo delle difficoltà che abbia mo avuto in questo mondo, perché lo stato di prova sarà passato in un batter d’occhi. Resterà soltanto la beatitudine.


Non siamo capaci di concepire come sarà la vita nell’eternità: così piena di piacere che San Paolo, dopo esser salito al terzo cielo, è tornato senza riuscire ad esprimere in termini umani quello che Dio ha preparato per quelli che Lo amano (cfr. I Cor 2, 9), e della quale San Giovanni Bosco, avendo visitato in sogno l’anticamera del Paradiso, è ritornato descrivendo meraviglie.20 Il convivio con gli Angeli, con i Santi, con la Madonna e con Dio è quello che ci aspetta; ma, per giungere a questo Regno, accettiamo con rassegnazione tutte le sofferenze permesse dalla Provvidenza Divina per il nostro bene e amiamo i nostri fratelli con sincero affetto. Non dimenticarci che i dolori terminano nell’ora della nostra morte, mentre nel Cielo “la carità non avrà mai fine” (I Cor 13, 8).

1) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. I, q.64, a.2. 

2) Cfr. Idem, q.95, a.1.


3) Cfr. ROYO MARIN, OP, Antonio. Jesucristo y la vida 
cristiana. Madrid: BAC, 1961, p.72-73.


4) Cfr. BEAUDENOM, Léopold. Méditations affectives et 
pratiques sur l’Évangile. Paris: Lethielleux, 1912, t.I, 
p.227-228; FABER, apud CHAUTARD, OSCO, JeanBaptiste. 
A alma de todo apostolado. São Paulo: FTD, 1962, p.112.


5) CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Conferenza. São Paulo, 
23 mag. 1964. 

6) Idem, ibidem.


7) SENECA. Tratados filosóficos. Cartas. México: Porrúa, 
1979, p.75. 

8) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., III, q.81, a.2.


9) TANQUEREY, Adolphe. La divinisation de la souffrance. 
Tournai: Desclée, 1931, p.26. 

10) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, op. cit., III, q.14, a.1, ad 2.


11) SAN FRANCESCO DI SALES. Sermon pour la feste de Saint 
Jean Porte-Latine. In: Œuvres Complètes. Sermons. 2.ed. 
Paris: Louis Vivès, 1862, t.IV, p.540. 

12) SAN FRANCESCO DI SALES. Lettre CXII, à une dame. 
In: Œuvres Complètes. Lettres Spirituelles, op. cit., 
t.X, p.333. 

13) CORRÊA DE OLIVEIRA, op. cit.


14) SAN GIOVANNI CRISOSTOMO. Homilía LXXII, n.3. 
In: Homilías sobre el Evangelio de San Juan (61-88). 
Madrid: Ciudad Nueva, 2001, v.III, p.130. 

15) Cfr. ROYO MARIN, OP, Antonio. Dios y su obra. 
Madrid: BAC, 1963, p.451. 

16) Idem, ibidem.


17) SAINT-EXUPÉRY, Antoine de. Vol de nuit. Paris: 
Gallimard, 1931, p.104.


18) Cfr. SANT’AGOSTINO. Epistola CXCIV, c.V, n.19. 
In: Obras. 2.ed. Madrid: BAC, 1972, v.XIb, p.71.


19) SANTA TERESA DI LISIEUX. Carta 43b, à Irmã Inês de Jesus. 
In: Obras Completas. Paço de Arcos: Carmelo, 1996, p.345.


20) Cfr. SAN GIOVANNI BOSCO. Vestíbulo del Cielo. 
In: Biografía y escritos. Madrid: BAC, 1955, p.654-663.

Comments


bottom of page