II Domenica di Quaresima – Anno – A.

Vangelo
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2 E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il Sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3 Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con Lui. 4 Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per Te, una per Mosè e una per Elia”. 5 Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. AscoltateLo”. 6 All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7 Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: “Alzatevi e non temete”. 8 Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo. 9 E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’Uomo non sia risorto dai morti” (Mt 17, 1-9).
Come sarà la felicità eterna?
La Trasfigurazione è stata per i discepoli un’anticipazione del godimento del Cielo ed un’immensa consolazione per affrontare le future prove della Passione e Morte di Gesù. Anche ciascun battezzato riceve consolazioni, come stimolo a perseverare al servizio di Dio.
I – L’immensa felicità del Paradiso celeste
San Paolo dichiara ai Corinzi di essere stato rapito al Cielo in un momento della sua vita, e di avervi udito parole impossibili da essere trasmesse e tanto meno da poter essere spiegate: “fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare” (II Cor 12, 4).
Infatti, per i mistici diventa difficile esternare le loro esperienze interiori, da cui possiamo ben comprendere quanto mancassero a San Paolo i termini di paragone per riferire ciò che gli era successo, poiché, secondo quanto egli stesso aveva detto precedentemente: “Cosa che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che Lo amano” (I Cor 2, 9). Ecco la meraviglia che ci aspetta nel momento in cui entreremo nella vita eterna. E questo deve esser stato per San Paolo un considerevole motivo per perseverare fino all’ora del suo martirio, nonostante egli allora avesse visto soltanto dei riflessi di quell’Assoluto che oggi contempla faccia a faccia.
Consideriamo più a fondo – fin dove può arrivare la nostra intelligenza rafforzata dalla fede – quale sarà l’essenza della nostra felicità quando accederemo alla visione beatifica.
Visione beatifica e conoscenza di Dio attraverso le creature
Secondo San Tommaso d’Aquino,1 tutti gli esseri creati da Dio potrebbero essere stati superiori, ad eccezione di tre: l’umanità di Cristo, per il suo essere unita ipostaticamente alla Persona del Figlio; la Vergine Santissima, in quanto Madre di Dio, e la visione beatifica, per il fatto di trattarsi della visione dello stesso Dio.
San Paolo afferma che nelle attuali circostanze la nostra conoscenza è imperfetta, “ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (I Cor 13, 10). E rende ancora più chiara quest’idea utilizzando questo paragone: “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia” (I Cor 13, 11-12).

Talmente ricco è stato l’universo teologico ricevuto da San Paolo direttamente dallo stesso Cristo Gesù che, alle volte, tesi di preziosa sostanza rimangono, nelle sue lettere, come avvolte all’interno di altri temi. Questa, in concreto, è una di loro. Infatti, la nostra conoscenza è imperfetta, poiché, sia che riguardi il campo naturale della pura intelligenza, o il campo soprannaturale, mediante la virtù della fede, incluso il campo della profezia, ha una caratteristica comune: l’elaborazione successiva realizzata sulla base di concetti creati e con lo sforzo dell’astrazione.
Al contrario, vedendo Dio faccia a faccia, la fede sarà ridondante in visione e si estinguerà con tutta la conoscenza astrattiva.
“Ora vediamo come attraverso uno specchio”, ossia, per mezzo di uno strumento, conosciamo Dio solo perché, “dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm 1, 20). E’ a partire da questo contatto diretto con le creature che elaboriamo altri motivi e principi attraverso la stessa fede, utilizzando concetti creati. Per questo è oscura la nostra conoscenza e, pertanto, imperfetta. Tuttavia, quando arriverà la fine, avremo una conoscenza immediata, chiara e totale di Dio, sebbene non possiamo conoscerLo totalmente.
La felicità dell’essere intelligente: l’esercizio delle sue facoltà
Forse capiamo ancor meglio la questione seguendo il ragionamento del Dottor Angelico.2 Secondo lui, il desiderio di felicità dell’essere intelligente lo porta a cercare la sua stessa perfezione, esercitando le sue più elevate facoltà. Questo si verifica persino riguardo gli stessi sensi, perciò possiamo constatare che l’occhio si rallegra nel vedere, e il palato, nell’assaporare. E in conseguenza costituisce un tormento l’inattività forzata dei medesimi.
Ora, la felicità dell’essere intelligente si verifica anche nell’esercizio delle sue facoltà ed egli diventerà tanto più felice quanto più nobili esse saranno e più bello ed elevato l’oggetto sul quale si esercitano. Non c’è dubbio che, naturalmente parlando, niente esista di più eccellente nell’uomo della sua intelligenza e niente possa superare la suprema verità che è lo stesso Dio. È nell’inesauribile e sempre rinnovata visione beatifica che l’uomo trova la pienezza della felicità, estensiva a tutti i suoi legittimi desideri, come, per esempio, quello di governare: “e regneranno con Lui” (Ap 20, 6); o la necessità dei beni: “Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile” (Sap 7, 11). “Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (II Cor 4, 17).
Amore: la ricerca incessante di Dio
Lo stesso si può dire a proposito della volontà, perché in Cielo chiaramente vedremo Dio faccia a faccia come il compendio di ogni bene, proprio come ci insegna San Tommaso: “La ragione comune della beatitudine è il bene comune perfetto. Così lo ha inteso [Boezio] quando ha detto che è ‘lo stato perfetto della riunione di tutti i beni’, non intendendo altra cosa per questo, se non che il beato è nello stato del bene perfetto”.3 E successivamente rende ancora più chiaro il concetto: “La beatitudine perfetta […] possiede la riunione di tutti i beni, dovuta all’unione con la fonte universale di ogni bene. Così, non necessita di ognuno dei beni particolari”.4
Da qui comprendiamo perché certi Santi abbiano sperimentato una tale carica mistica d’amore da giungere quasi allo svenimento. Chissà possiamo farci un’idea migliore di quanto immensa e piena sarà la felicità della nostra volontà in Cielo, se analizziamo la ragione del movimento del nostro amore per le creature, qui sulla Terra. Senza rendercene conto, infatti, quasi sempre in forma implicita, quando amiamo, stiamo cercando un riflesso di Dio esistente in questi o in quegli oggetti del nostro amore.5 Tenendo ciò ben presente, possiamo chiederci: quale non sarà la nostra felicità nel Cielo, quando ci presenteremo davanti a Dio stesso, faccia a faccia?
Piacere: il possesso del bene desiderato
Dalla visione di Dio faccia a faccia e da questo reciproco amore tra Lui e me, sovrabbonderà un eterno e indescrivibile piacere, perché quando prendo possesso di un oggetto molto desiderato da sempre, divento felice. Fin quando ciò non mi appartiene, mi consumo per ottenerlo. Nel riceverlo definitivamente, in esso mi riposo e di esso fruisco. Ecco in cosa consiste la felicità. Quanto migliore sarà l’oggetto e maggiore la sua durata, proporzionalmente più intenso sarà il piacere che ne risulterà.
L’essere umano, nell’essenza del suo spirito, specificamente è intelligenza e amore. In Cielo, il desiderio di conoscere è soddisfatto in forma piena nella visione della Verità, Bontà e Bellezza, ossia, dello stesso Dio. L’ansia di amare e di essere amati si placa interamente, poiché non solo ameremo Dio, ma saremo coscienti e avremo l’esperienza di tutto l’amore che Egli ha per noi. Inoltre, per tutta l’eternità vedremo aspetti nuovi dell’Essere Assoluto e Infinito, accresciuti dall’insuperabile convivio di Gesù nella sua santissima umanità, della Vergine Maria, nostra Madre, degli Angeli e dei Santi.
Che cos’è il Cielo?

Questo è il Cielo, “il fine ultimo e la realizzazione di tutte le aspirazioni più profonde dell’uomo, lo stato di felicità suprema e definitiva”; 6 e questa è la gloria che trapela sul Tabor, nell’atto della trasfigurazione del Signore. Ha manifestato ai tre Apostoli la chiarezza della sua Anima e del suo Corpo per incoraggiarli, in funzione della gloria finale, a percorrere lo spinoso e drammatico cammino del Calvario e, con forza d’animo, accettare il futuro martirio nell’epilogo delle loro vite.
II – La Trasfigurazione del Signore
Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte.
San Luca parla di circa otto giorni (cfr. Lc 9, 28). Sarà più facile comprendere quanto apparente sia questa discrepanza se teniamo conto che un evangelista considera il giorno di partenza e quello di arrivo, mentre Matteo – quando parla di “sei giorni dopo”, in questo primo versetto completo – si riferisce soltanto ai giorni intermedi, come ce lo spiega San Girolamo.7 Il “dopo” considera come punto di riferimento la scena della confessione e del primato di Pietro, in Cesarea. Da qui partono verso il Monte Tabor che dista circa 80 km, situato ai confini della Galilea e della Samaria. Il Divino Maestro si compiaceva per l’altezza delle montagne, e lì cerca di prodigare i suoi grandi misteri.
In questo caso concreto, ha scelto il Tabor forse per simbolizzare la necessità di elevare i nostri cuori al di sopra delle cose di questo mondo per dedicarci più facilmente alla meditazione delle verità eterne in modo da trarne ogni profitto, secondo le parole di San Remigio: “Con questo il Signore ci insegna che è necessario, per chi desidera contemplare Dio, non lasciarsi impantanare nei bassi piaceri, ma elevare l’anima alle cose Celesti, per mezzo dell’amore verso le realtà superiori. Insegna ancora ai suoi discepoli che non devono cercare la gloria della loro beatitudine divina nelle regioni inferiori del mondo, ma nel regno della beatitudine Celeste. E sono condotti separatamente perché tutti i santi stanno appartati, con tutta la loro anima e con la direzione della fede, da qualsiasi macchia, e saranno radicalmente separati nei tempi venturi o anche perché molti sono i chiamati e pochi sono i prescelti”.8
I commenti si moltiplicano a proposito della ragione per cui Gesù abbia scelto questi tre Apostoli per godere del suo convivio glorioso. Un motivo chiaro e immediato balza subito agli occhi: questi avrebbero visto più da vicino le umiliazioni per le quali sarebbe passato il Salvatore. Come anche era fondamentale che ci fossero alcuni testimoni della gloria di Gesù per sostenere, nella prova della Passione, gli apostoli nelle loro tentazioni.
Appartarsi dalle creature è condizione indispensabile per entrare in contatto con Dio e, più ancora, per vederLo.
Il fulgore splendido dell’Anima di Gesù
2 E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il Sole ele sue vesti divennero candide come la luce.
In che cosa sarà consistita questa trasfigurazione? Evidentemente, gli Apostoli non videro la divinità del Verbo di Dio, inaccessibile agli occhi corporali. Videro appena una frangia del fulgore della vera gloria dell’umanità sacra di Gesù. Probabilmente, niente più che il dono della chiarezza di cui godono i corpi gloriosi.
Teniamo presente quanto il Salvatore preferisse la notte per pregare e proprio per questo, tale importantissimo avvenimento deve essere avvenuto dopo l’imbrunire, nel silenzio della natura. Anche in questo modo Egli Si manifesta a noi, quando facciamo tacere, nel nostro intimo, il vocio delle creature e cerchiamo le luci dell’alto dopo aver spento quelle di quaggiù.
“Il suo volto somigliava al Sole” (Ap 1, 16), ossia, luci in forma di raggi partivano dal Suo Sacro Volto e si irradiavano a buona distanza. Senza smettere di avere la stessa fisionomia, non possedendo connotazioni terrene, divenne raggiante di luce e splendore, con piena vitalità e dolcezza. Possiamo ben immaginare la sua grandezza quando verrà a giudicare i vivi e i morti alla fine dei tempi, quando il Suo volto sarà di gran lunga ancor più luminoso che in questa occasione.
Per quanto raffinata sia l’arte umana, le è difficile superare certe bellezze della natura uscite dalle mani di Dio. Al di sopra di queste, ci sono le meraviglie della grazia, le quali oltrepassano tutti i limiti. Così devono essere state le vesti di Gesù durante la sua Trasfigurazione, molto diverse, del resto, da quelle usate da noi in queste vie che finiscono nella morte. Il fulgore delle vesti di Gesù era pallida esteriorizzazione della gloria della sua adorabile Anima, beata per la grazia di unione e per trovarsi nella visione beatifica fin dal primo istante della sua creazione.
Quante illusioni causano alle volte, i nostri sarti e stilisti, quando con un certo successo, grazie alla loro abilità, riescono a coprire i difetti di un corpo concepito nel peccato e da questo macchiato. In questi casi, il vestito finisce per rettificare le linee storte della natura. Durante la Trasfigurazione tutto è stato differente, la bellezza dell’Anima di Gesù ha rivestito la sua natura umana perfettissima. È stata la gloria interiore che si è esplicitata alla vista di chi ha avuto la felicità di trovarsi sul Tabor in quel momento.
Il potere sopra la morte e la vita
3 Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con Lui.

Se la fede degli Apostoli necessitasse di una conferma testimoniale, lì stanno due massimi rappresentanti – uno della Legge e l’altro dei profeti – ad adorare Cristo Gesù. Intimamente legati al Messia compiono, in modo sovrano, le esigenze giuridiche per garantire l’autenticità di una testimonianza assoluta. Termina la Legge, si compiono le profezie. Tutta la creazione si prostra ai piedi del Promesso dei popoli.
Questi due grandi personaggi appaiono nella Trasfigurazione del Signore, come ci assicura San Giovanni Crisostomo, “affinché si sapesse che Egli aveva potere sopra la morte e sopra la vita, per questa ragione presenta Mosè, che era morto, ed Elia, che ancora viveva”.
Ruolo delle consolazioni nella vita
4 Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per Te, una per Mosè e una per Elia”.

Pietro sarà confermato nella grazia solamente a Pentecoste; fino a quel momento, la sua loquacità gli conferisce il merito della manifestazione di fede nella divinità di Gesù (cfr. Mt 16, 16; Mc 8, 29; Lc 9, 20), o il demerito della promessa temeraria di non rompere mai la sua fedeltà (cfr. Mt 26, 33- 35; Mc 14, 29; Lc 22, 33; Gv 13, 37), o della negazione nella casa del sommo sacerdote (cfr. Mt 26, 69-74; Mc 14, 66-72; Lc 22, 55-60; Gv 18, 25-27). Sul Tabor, invaso da una smisurata gioia, desidera perpetuare quella felicità. Pietro non era ancora sufficientemente istruito dallo Spirito Santo per sapere quanto la Terra non sia l’ambiente per il piacere permanente. Non aveva nozione di quanto le consolazioni fossero ausili passeggeri concessi da Dio per stimolarci al Suo servizio e a soffrire per Lui.
“Io e il Padre siamo una cosa sola”
5 Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. AscoltateLo”.
Nelle Sacre Scritture, appare qualche volta questa o quella nuvola per simbolizzare la presenza di Dio e la sua teofania. Vari sono i passi dell’Esodo in cui esse sono utilizzate come segnali sensibili della manifestazione divina: “ed ecco la Gloria del Signore apparve nella nube” (16, 10); “Quando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube, che stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della propria tenda” (33, 9-10); ecc.
Non resta il minimo dubbio che è del Padre la voce che proclama: “Questo è il mio Figlio”. Ed infatti, analizzando in profondità, solamente Cristo Gesù adempie a tutti i requisiti di Figlio perfetto. Possiede la medesima sostanza del Padre in una maniera così completamente perfetta da costituire una sola e medesima cosa con Lui: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30). E’, pertanto, uguale al Padre: “Chi ha visto Me ha visto il Padre” (Gv 14, 9).
Nelle sue due nature, Egli è la Parola che manifesta il Padre: è “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1, 3), in quanto Dio. D’altro canto, lo ha fatto anche attraverso la sua umanità: “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che Mi hai dato dal mondo” (Gv 17, 6); “Io Ti ho glorificato sopra la Terra, compiendo l’opera che Mi hai dato da fare” (Gv 17, 4). Oltre a ciò, la sua è stata un’insuperabile obbedienza: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42); “mio cibo è fare la volontà di Colui che Mi ha mandato” (Gv 4, 34); “Si fece obbediente fino alla morte e alla morte di Croce!” (Fil 2, 8). Sempre con intera sottomissione, imitandoLo in tutto: “Il Figlio da Sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5, 19).
Sebbene siamo veri figli di Dio, come ci assicura il salmista – “Io ho detto: ‘Voi siete dei, siete tutti figli dell’Altissimo’” (Sal 82, 6) –, noi lo siamo per misericordiosa adozione. Il Figlio di Dio per natura, è uno solo: “Il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio” (I Gv 5, 20).
“Questi è il Figlio mio Prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”
Quando amiamo, cerchiamo nell’oggetto del nostro amore, una bontà che vi preesiste, in quanto riflesso dello stesso Dio. Il nostro amore non è efficiente al punto da produrre la bontà negli oggetti da noi amati. Al contrario, l’amore di Dio, secondo San Tommaso d’Aquino,10 è tanto ricco che introduce la bontà negli essere da Lui amati. Egli è la Bontà in essenza e l’ha diffusa in tutte le sue creature. Tuttavia, qui il Padre afferma di aver posto “tutta” la sua compiacenza nel suo Unigenito, proprio come ci dichiara San Giovanni: “Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (Gv 3, 35). Pertanto, collocando in Lui tutto il suo amore, ha posto in Lui, tutta la sua bontà.
“AscoltateLo”